Corriere 14.5.16
Due scadenze elettorali sovrastate dal non voto
di Massimo Franco
La
febbre referendaria sta aumentando. È accompagnata dalla voglia di
«coinvolgere i cittadini nelle scelte», come dicono indistintamente
tutti i partiti; ma in parallelo da un’incapacità di attirarli alle urne
che fa lievitare l’astensionismo a livelli di guardia. Il cortocircuito
elettorale, insomma, è in agguato. Il referendum tende infatti a essere
utilizzato come il surrogato delle elezioni che non si fanno; o come lo
strumento per rimediare a una sconfitta o per puntellare una vittoria.
Significa distorcene il significato, favorendo logiche da resa dei conti
che ne accentuano la crisi.
La tentazione delle forze politiche a
trattare ogni questione con un patologico doppio standard contribuisce a
questa deriva. E promette di consegnare risultati imprevedibili. Anche
perché il referendum finisce per diventare non il «bagno di democrazia
diretta» che coinvolge il popolo e ne mescola le identità su grandi
temi. Si presenta invece come uno strumento di mobilitazione «usa e
getta»: a volte anche a prescindere dal numero dei votanti. Diventa lo
specchio di un’Italia nella quale l’obiettivo non è affermare un’idea ma
zittire una minoranza, vera o presunta.
Il fatto che l’istituto
referendario premi soprattutto le posizioni più estreme rischia così di
riflettere solo una guerra tra minoranze, allontanando il grosso
dell’opinione pubblica: le ultime consultazioni dicono questo. E nel
caso delle riforme istituzionali, a ottobre, non ci sarà bisogno di
raggiungere la percentuale del 50 per cento più uno dei votanti. Una
prova generale sulla partecipazione si avrà alle Amministrative del 5
giugno. Anzi, del 5 e 6 giugno, perché il Viminale ha deciso di far
votare anche il lunedì per arginare un astensionismo in ascesa.
Colpisce
l’elaborazione del Censis sulle tre ultime elezioni comunali in alcune
città dal 2001 al 2013. In dodici anni, Roma ha «perso» 572 mila
votanti, il 31,5 per cento; Milano 225 mila, meno 25 per cento; Torino
166 mila, il 26,1; Napoli 89 mila, il 15,9. Forse è possibile vedere
nella crescita degli astenuti un fenomeno fisiologico. Ma un terzo in
meno di elettori nella capitale indica qualcosa di più. E il tema della
partecipazione può risultare ancora più decisivo nel referendum sulle
riforme costituzionali.
Ieri il ministro Maria Elena Boschi ha
insistito su un testo «non perfetto ma buono». E ha spiegato che al
referendum si vota sul merito e non sul governo. L’impostazione del
premier Matteo Renzi, però, finora è stata diversa: come minimo
contraddittoria. Ribadire che in caso di sconfitta si ritirerebbe dalla
vita politica estremizza le posizioni. E infatti i «comitati per il No»
già scaricano sul premier eventuali contraccolpi. Confermano così che
l’approccio di Renzi non mobilita solo i sostenitori del governo, ma i
suoi avversari.