Corriere 12.5.16
Se vince il no al voto di ottobre il prezzo più alto lo paga M5S
Verrebbe travolto anche l’Italicum con un bivio tra urne e governo tecnico
di Francesco Verderami
Il
primo a rendersene conto è Di Maio: vincesse il «no» al referendum,
sarebbe una iattura per le ambizioni di governo dei Cinquestelle e per
quelle di chi è candidato a candidarsi per Palazzo Chigi.
Perché è
vero che la bocciatura delle riforme costituzionali rappresenterebbe un
successo delle forze anti-sistema, sarebbero anzitutto loro a
beneficiarne politicamente. Tuttavia, per quanto possa apparire
paradossale, il voto popolare che condannerebbe Renzi alla rottamazione
renderebbe (quasi) impraticabile la strada verso il potere ai grillini.
L’ha spiegato sul Sole il professor D’Alimonte con «la logica dei
numeri»: siccome l’Italicum è lo strumento che dà a M5S «la migliore
possibilità di vincere facendo un governo senza alleanze», solo una
vittoria del «sì» salverebbe quel meccanismo elettorale.
I
dirigenti del movimento sono consapevoli che l’Italicum è «una risorsa»,
sebbene non possano dirlo né abbiano spazi di manovra al referendum,
dato che sono schierati contro la riforma. Ma una vittoria del «no»
cambierebbe verso anche alle loro prospettive, rischiando di
comprometterle. Perché a quel punto il sistema si troverebbe dinnanzi a
un bivio, se Renzi mettesse in pratica ciò che ripete da mesi: in caso
di sconfitta ha annunciato infatti che lascerebbe Palazzo Chigi, e «per
ragioni di dignità smetterei anche di fare politica». Intanto c’è capire
quando rassegnerebbe le dimissioni da premier: dato che il referendum
si terrà in ottobre — mentre il Parlamento è in sessione di bilancio —
attenderebbe l’approvazione della legge di Stabilità prima di
congedarsi?
Il timing è fondamentale. Se Renzi abdicasse prima,
servirebbe un esecutivo per assicurare il varo della Finanziaria al
cospetto dell’Europa e dei mercati. Se passasse la mano dopo, lascerebbe
tempo ai giochi di Palazzo, dove «l’istinto di sopravvivenza» alligna
in tutti i gruppi. Ma non c’è dubbio che al bivio spetterebbe a
Mattarella stabilire quale sentiero imboccare, dopo le consultazioni. E
se si arrivasse allo scioglimento anticipato, il Paese sarebbe chiamato a
eleggere la Camera con il sistema iper-maggioritario dell’Italicum, e
il Senato — sopravvissuto alla riforme — con il Consultellum, che è un
meccanismo proporzionale con soglie di sbarramento su base regionale.
L’ingovernabilità
sarebbe garantita: perché con due rami del Parlamento eletti con
modelli diversi e da corpi elettorali diversi, non esiste una formula
magica. Lo sostengono gli esperti e lo raccontano le simulazioni che
vennero fatte dopo le Europee, quando il Pd superò il 40%: nonostante
quel risultato, al Senato non aveva maggioranza. Perciò, qualora
riuscissero nello stesso exploit, «anche i grillini — secondo il
costituzionalista democrat Ceccanti — avrebbero bisogno di un Verdini
per governare». Sono calcoli che Di Maio conosce, e che sono stati
analizzati dai dirigenti a Cinquestelle.
Così il fallimento della
contestata «rivoluzione renziana», rischierebbe di trasformare
l’eventuale successo di M5S in una vittoria dimezzata, e di risucchiare
il Movimento nella «palude» della restaurazione. Questo processo
potrebbe verificarsi dopo le elezioni, o anche prima se riuscisse un
gioco di Palazzo che al momento appare immaginifico. È l’altra strada
che si parerebbe davanti al bivio, se il «no» vincesse al referendum. Ed
è incredibile constatare come l’altro ieri Berlusconi abbia detto in
pubblico le stesse cose che ieri autorevoli esponenti della minoranza
del Pd hanno spiegato in privato: «Bocciata la riforma, Renzi va a casa e
nasce un governo di unità nazionale prima di tornare al voto».
Sarà
pure contradditorio l’atteggiamento della «ditta», che addita il
premier per il suo rapporto con Verdini. E sarà altrettanto
contraddittorio Berlusconi, che — come ha scritto il centrista Cicchitto
sull’ Huffington — «chiama traditori quelli che fanno le larghe intese,
a meno che non le faccia lui». Ma non c’è dubbio che qualcosa si muove
nel fronte ostile a Renzi, se è vero che nel Pd si allude a un prossimo
«governo Giuda», se in nome delle garanzie da offrire ai mercati si
ipotizza un esecutivo a guida Padoan, e in nome della riforma elettorale
si fa riferimento al presidente del Senato Grasso.
È una ridda di
voci che dà l’idea di una fase magmatica, tutta centrata sul «dopo
Renzi» e su un radicale mutamento di sistema: con il ritorno al
Mattarellum o una riedizione del proporzionale, si vedrà. In ogni caso,
l’obiettivo è depotenziare l’onda d’urto a Cinquestelle e sterilizzare
anche l’avanzata lepenista, sacrificando per questi scopi il referendum.
D’altronde la vittoria del «no» avrebbe l’effetto di decapitare il
vertice democrat: quello presente e quello pronosticato per il futuro,
cioè la Boschi, al cui nome è legata la riforma costituzionale.
Resta
da capire, in caso di sconfitta, se Renzi abdicherà davvero e senza
provare una reazione. E resta da verificare se il Pd solidarizzerà con
lui, dato che oggi si mostra schierato con lui. A meno che non abbia
ragione il forzista Brunetta, suo fiero avversario: «In quel partito
sono diventati tutti renziani in corso d’opera. Diventeranno
anti-renziani in corso d’opera». Più o meno quel che sussurrano quelli
della «ditta ».