Corriere 12.5.16
Cronaca di un’implosione L’Italia sfigurata dalla crisi
Il libro di Marco Revelli, «Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia» (Einaudi)
di Corrado Stajano
Si
sa, la conoscenza che la classe dirigente politica nostrana ha della
società è relativa. Ministri, senatori, deputati affidano ai loro
portaborse e ai loro galoppini l’incarico di riferire le notizie che
vogliono. L’ottimismo di maniera è la regola, oggi più che mai.
Questo
libro di Marco Revelli, Non ti riconosco. Un viaggio eretico
nell’Italia che cambia (Einaudi), può far tremare le vene e i polsi con
il suo spirito di verità. Revelli conosce bene la società italiana, ha
le carte in regola per parlarne, professore di Scienza della politica,
autore di libri come Oltre il Novecento , La politica perduta , Poveri
noi , Finale di partito , Dentro e contro (quando il populismo è di
governo) . Il nuovo libro, 5-6 anni di lavoro, è un viaggio in Italia,
ma il Grand Tour, gli stranieri più o meno illustri alla ricerca, dal
Settecento al Novecento, della bellezza e del mitologico splendore,
soprattutto del Sud, non è il modello. Anche se il titolo si rifà a un
Lied di Goethe, gran viaggiatore nell’Italia amata.
Marco Revelli
non riconosce più il Bel Paese. Confessa di essere spaesato, tradito,
disorientato, sradicato: «L’io», scrive, «non si sente più “a casa” in
nessun luogo del mondo perché ”il mondo” non ha più nulla ormai di
famigliare, di “domestico”. In una parola: di riconoscibile».
Ma
non si rassegna Revelli, va a vedere. «Un viaggio si fa o per fuggire da
qualcosa, o per cercare qualcosa», come ha detto Diego Osorno, grande
reporter-narratore messicano. E anche per ritornare: Claudio Magris.
Non
ti riconosco è un libro duro, crudo, sofferente. In viaggio, da Torino a
Lampedusa. Pessimista? Realista, piuttosto. Un libro di grande
bellezza, il suo, se si potesse usare il codice estetico. I luoghi, le
persone, le loro storie, gli incontri, il passato-presente sono i
protagonisti. Revelli osserva, interroga, è un ispettore generale, uno
scrittore senza modelli, un narratore, un professore che studia, al di
là degli scheletri dei documenti. Parla con il prossimo, parla anche con
se stesso, spiega, vuol capire, per far capire e per capirsi. Il libro è
una mescolanza di racconto, saggio, inchiesta, verifica dei poteri,
analisi ossessiva, un continuo fare i conti — perché è potuto accadere? —
è anche la ricerca di un’uscita di sicurezza, il tempo per farlo è
breve in una società che sembra rassegnata, passiva, chiusa in se
stessa. Una società che ha smarrito i fervori di certe generazioni
passate e non può affidarsi a una classe dirigente politica incolta e
arrogante che fa di tutto per cancellare il valore sommo della
democrazia. Non c’è bisogno di scomodare il V secolo a. C. di Pericle,
basta non tradire i momenti di dignità della neonata Repubblica, la
Resistenza, la Costituzione.
Il viaggio comincia nella città che
Revelli ben conosce, Torino. Lo scrittore non ha nostalgie, affetti
piuttosto. Che cos’era Mirafiori! Un posto ciclopico, infernale,
mostruoso in tutti i sensi, con un perimetro di 11 chilometri, 32 porte,
60 mila operai, un sordo rumore ininterrotto che, brontolante, veniva
su dalle viscere. Oggi? «Quel cratere si è spento. Materia fredda. E
silenziosa. Non si sentono più vibrazioni, ronzii di macchine al lavoro,
men che meno grida di rivolta. Né il tonfo cadenzato delle Grandi
Presse». Gli operai sopravvissuti sono 5.321, dalle linee di produzione
escono un centinaio di auto al giorno, ne uscivano 5.000. La Fiat si
chiama Fca, la sede legale del gruppo, dopo la fusione con la Chrysler, è
ad Amsterdam, la sede fiscale a Londra. Tutto frantumato, sminuzzato,
rimpicciolito, ridotto a rottame. La grande distribuzione ha vinto sulla
grande produzione. A Torino, dove non c’è soltanto la Fca, la vita
continua, nonostante tutto, e stanno nascendo laboratori: Arduino, per
esempio, che non è un uomo, ma «una scheda» che crea gli oggetti più
disparati; i Traders, fornitori di servizi, e non pochi inventori di
nuovi lavori, il contrario della produzione fordista. Le iniziative
esistono ma, se manca una politica sana e intelligente, com’è possibile
collegare tra loro tutte quelle energie positive?
Da Torino alla
Brianza, la Silicon Valley italiana degli anni Ottanta, dove
prosperavano l’Alcatel, la Micron, la Celestica, e con loro 800 imprese
nell’ambito delle telecomunicazioni. Il dimagrimento cominciò nel 2008,
poi la caduta a cascata, i tagli, le mobilità, le bancarotte,
l’esplosione, l’implosione. Marco Revelli prova anche qui un senso di
irrealtà. Racconta di quando, nella placida Brianza, gli ingegneri,
l’aristocrazia di quel settore di lavoro, accolsero nel 2014, a
Vimercate, il presidente del Consiglio Renzi «in visita pastorale
all’impresa simbolo della velocità e della rottamazione», l’Alcatel
appunto, con cartelli beffardi: «Se Renzi è di sinistra, Berlusconi è
femminista».
E poi il tragico Nordest. Gian Antonio Stella, nel
suo Schei (1996), raccontò l’incredibile boom del Veneto diventato «la
locomotiva d’Italia», il «Giappone d’Europa»: le scarpe nel Veronese, la
concia ad Arzignano, gli occhiali a Belluno, i mobili a Bassano, lo
Sportsystem a Montebelluna, l’oro nel Vicentino.
Revelli è andato a
vedere. A Rossano Veneto, piccola capitale del boom, 6.532 abitanti,
900 imprese: con la crisi globale è arrivata la depressione, la
«malaombra». Sono caduti i capannoni, le villette a schiera, i fienili
diventati officine, i posti di lavoro. In quegli anni, nel Nordest, si
calcola che ci siano stati 500 suicidi, tra imprenditori e dipendenti.
Le cause? «In questo Nordest euforico trasformato in un Far West triste
si assiste al paradosso per cui si fallisce per troppi crediti». (I
mancati incassi del committente insolvente, della pubblica
amministrazione inadempiente hanno creato debiti incolpevoli con
tragiche conseguenze).
Il viaggio alla Taranto dell’Ilva ha il
colore del piombo fuso. E pensare che la nuvola portatrice di morte
aleggiante sullo stabilimento di colore rossastro, non pareva nemica. Il
IV Centro siderurgico, nato nel 1964, doveva rappresentare il riscatto
delle plebi meridionali, con i suoi due milioni di tonnellate d’acciaio
all’anno. È diventato soltanto una fabbrica di morte, portatrice di una
catena di tumori, anche nei quartieri vicini, il Tamburi, il Paolo VI.
Fu un professore di storia, Alessandro Marescotti che, sospettoso, fece
analizzare da un chimico un pezzo di formaggio e rese pubblica la
notizia sulla mostruosa concentrazione di diossina che pesava sull’Ilva e
su Taranto. Revelli registra la tragedia, studia i documenti, parla con
gli operai, «gli occhi bassi dei vinti».
Poi la Calabria. Al
porto di Gioia Tauro la ’ndrangheta è padrona, d’accordo con i cartelli
messicani della droga, armi e cocaina. Lo scrittore, in questo paesaggio
di struggente bellezza, incontra chi non si è arreso, un giornalista
sotto scorta, Michele Albanese, e un imprenditore che ha detto no al
pizzo, Nino De Masi, mitragliato, minacciato, anche lui sotto scorta.
Che cosa sanno i governanti della questione meridionale e della
questione criminale che ne è parte integrante?
Il libro finisce a
Lampedusa dove la sindaca Giusi Nicolini fa fronte con coraggio. Lei e
papa Francesco. Marco Revelli visita con angoscia un cimitero dove le
croci sono state costruite con il legno delle barche affondate. Su uno
sperone di roccia di Punta Maluk, un artista, Mimmo Paladino, ha
costruito, con materiali difformi, la Porta d’Europa, un simbolo
imponente, sacrale. Chissà che i Paesi del Continente si rendano conto
una buona volta di questa nuova strage degli innocenti. La Shoah dei
migranti.