giovedì 12 maggio 2016

Corriere 12.5.16
Ma perché è così difficile votare per una donna negli Stati Uniti?
di Gian Antonio Stella

Gli Stati Uniti sono davvero così cambiati da eleggere una donna, Hillary Clinton? Gli Usa, descritti come «la patria dei diritti», sono meno aperti verso le donne di quanto sembri. E risultano novantasettesimi su 191 per quota di parlamentari donne.
«M a cara», dice il gallo implorando la gallina, «le uova da covare diventeranno fredde!». «Arrangiati, vecchio: il Paese mi chiama». Tema: rispetto a quella vecchia vignetta dal titolo «Quando l’America sarà femministizzata» gli Stati Uniti sono davvero cambiati tanto da eleggere una donna?
Il dubbio c’è. E non solo perché le battutacce da caserma non hanno affatto azzoppato Donald Trump (anzi...) o perché il cammino verso la Casa Bianca di Hillary Clinton, che ha perso di nuovo l’altro ieri in West Virginia, si sta confermando più accidentato del previsto. Ma proprio perché gli Stati Uniti, descritti in certi schemini come «la patria dei diritti», sono in realtà assai meno aperti verso le donne di quanto sembri da lontano.
Dice l’ultima classifica della Inter-Parliamentary Union, del primo aprile 2016, che gli Usa sono al 97esimo posto (novantasettesimo su 191 Paesi: e a gennaio erano addirittura al 105esimo!) per quota di parlamentari donne: il 19,4% alla Camera dei rappresentanti (dove sono solo 84 su 434) e venti su cento al Senato. Vale a dire che Hillary si trova a dover conquistare un Paese più chiuso alle donne non solo del Ruanda, della Bolivia o di Cuba, che svettano in cima al ranking, ma di Stati come il Senegal, la Macedonia, l’Algeria, il Sudan, la Guyana e perfino la Mauritania, gli Emirati Arabi o il Bangladesh.
La lista dei governatori conferma: Nikki Haley (Carolina del Sud), Maggie Hassan (New Hampshire), Susana Martinez (New Mexico), Mary Fallin (Oklahoma), Kate Brown (Oregon), Gina Raimondo (Rhode Island) e Muriel Bowser (Distretto Columbia) sono eccezioni che confermano la regola. Gli americani, che elessero la prima governatrice (Nellie Tayloe Ross, Wyoming) solo nel 1925, alla guida di vari Stati preferiscono i maschi.
E non si tratta di un passaggio incidentale della storia. È un ritardo che affonda le radici in un passato dove, al di là di figure leggendarie come Calamity Jane, suor Blandina o santa Francesca Saverio Cabrini, la donna ha sempre fatto storicamente una gran fatica a trovare spazio. Dicono tutto le vignette, una valanga, contro la concessione del suffragio femminile. Suffragio che pure era stato concesso nel 1869 nel Wyoming, ma solo per ragioni contingenti: per entrare a far parte degli Stati Uniti era necessario un certo numero di votanti. Ci ridono ancora su: «Non potendo far votar le mucche...».
Sono illuminanti, quelle vignette. Suffragette brutte, mascoline, sboccate, col sigaro in bocca nei saloon... Bimbi in lacrime che strillano disperati: «Mamma è una suffragetta!». Mariti con l’aureola di santità che con una mano coccolano un pupo e con l’altra stirano camicie... Ancora galli che ridono di galline: «Che te ne pare della vecchia suffragetta che fa chicchirichì?».
Le date sono, se possibile, ancora più chiare. In un Paese segnato dal razzismo che solo nel 1965 e in seguito alla epocale marcia di Selma guidata da Martin L. King arriverà finalmente ad abolire le cosiddette «leggi Jim Crow», cioè le norme segregazioniste, il voto viene concesso ai neri (anche se ci vorranno decenni perché il diritto sia esercitato davvero) con il XV Emendamento nel 1870. Quello alle donne, con il XIX emendamento nel 1920: mezzo secolo dopo. E in ritardo di 14 anni sulla Finlandia, 18 sull’Australia, 27 sulla Nuova Zelanda...
E sempre di decenni è il ritardo in Parlamento. Il primo afroamericano, Pinckney B. Stewart Pinchback (che già era stato nel ’72 il primo a diventare governatore, in Louisiana, subentrando per 15 giorni a Henry Clay Warmoth, sottoposto ad impeachment), viene eletto alla Camera dei rappresentanti nel 1874.
La prima donna, Jeannette Rankin, combattiva pacifista e femminista del Montana, solo nel 1916. Peggio ancora al Senato. Il primo eletto nero è Hiram Rhodes Revels nel 1870. La prima eletta donna Rebecca Latimer Felton, nel 1922. Né andrà meglio in seguito: 46 senatrici in totale. Comprese quelle di oggi. In due secoli di storia.
Men che meno, come ricorda tra gli altri Mauro della Porta Raffo nella sua monumentale storia delle elezioni americane («Usa 1776/2016. Dalla Dichiarazione di Indipendenza alla campagna elettorale del 2016»), sono state fortunate le sortite presidenziali. Basti ricordare che due soli candidati alla Casa Bianca nella storia si sono presentati facendosi affiancare da donne come candidate alla vice-presidenza: il democratico Walter «Fritz» Mondale che nel 1984 sfidò Ronald Reagan scegliendo come vice Geraldine Ferraro e il repubblicano John McCain che nel 2008 cercò di fermare l’ascesa di Barack Obama prendendosi come vice la pugnace leader della destra Sarah Palin. Come sia finita si sa: furono travolti. Così come in quel 2008 fu travolta dall’afroamericano Barack Obama, nelle primarie democratiche, Hillary Clinton.
Ce la farà stavolta, contro «the Donald» che ormai pare lanciato e viene addirittura dato per vincente in certi sondaggi che mesi fa non gli davano scampo? Può darsi. Ma certo tra i suoi avversari c’è anche la pancia di un Paese che, per quanto alcune donne straordinarie abbiano dimostrato formidabili capacità manageriali, politiche e intellettuali, resta ancora sotto sotto...