Corriere 11.5.16
La Costituzione italiana. Tutela di una bellezza fragile
Il volume di Michele Ainis e Vittorio Sgarbi in uscita domani per La nave di Teseo
di Roberta Scorranese
Era
il 1917, c’era la guerra. Nei borghi italiani si sopravviveva tra fame e
paura, eppure interi paesi dell’entroterra lombardo veneto si
mobilitarono per mettere in salvo la Pala dell’Assunta di Tiziano, che
da Venezia venne imballata e trasportata (per vie fluviali) prima a
Cremona e poi a Pisa. All’indomani del primo conflitto mondiale,
nonostante le urgenze della ricostruzione, venne avviata una imponente
(seppur parziale, nel nome dell’italianizzazione delle terre redente)
operazione di restauro dei monumenti feriti.
E nel secondo
Dopoguerra? Alla stesura della Costituzione italiana, iniziata nel 1946,
parteciparono, sì, giuristi e storici, ma anche due letterati: il
critico Pietro Pancrazi e lo scrittore Antonio Baldini. Come se
quell’atto di nascita dovesse difendere non solo i diritti civili dei
cittadini, la libertà e la giustizia, ma anche un’intima natura più
sentita: la bellezza del Paese. Perché, a settant’anni dai primi passi
della nostra Carta costituzionale, forse quello che davvero lega gli
italiani da Trento a Siracusa è una sottile, intermittente
consapevolezza: la coscienza di appartenere a un posto tanto bello
quanto fragile. Tanto ricco di storia quanto vulnerabile e permeabile ai
soprusi, un Paese dalla bellezza «bambina», che ha bisogno di una
sorveglianza costante. Forse nasce qui l’istinto innato a proteggere
quello che ci circonda: dai contadini che trasportarono la Madonna
(ritenuta miracolosa) di Tiziano al mezzo milione di volontari che oggi
si prendono cura di chiese, palazzi e giardini.
E il libro La
Costituzione e la bellezza di Michele Ainis e Vittorio Sgarbi, che esce
domani per La nave di Teseo, è una seducente biografia dell’Italia letta
attraverso la Costituzione e le opere d’arte, che procede per
contraddizioni: la norma e la sua (eterogenea) applicazione, le premesse
e la realtà con cui fare i conti ogni giorno, dalla mancanza di fondi
alla cementificazione legittimata dal diktat della «crescita».
Nell’articolo
1, per esempio, in poche righe si succedono le parole «democrazia»,
«lavoro» e «sovranità», guarda caso i tre elementi che hanno diviso gli
italiani nei tempi più recenti (democrazia diretta o rappresentativa?
Riforma del lavoro o no? E la sovranità è reale o l’ingerenza europea è
asfissiante?). Eppure, la nostra cultura si è nutrita anche di fratture e
dalle scissioni sono nati capolavori come la Divina Commedia («Ahi
serva Italia, di dolore ostello...») o tutto il filone del romanzo
d’immigrazione, della lontananza, da Pasolini a Magris.
Ma
attenzione: la bellezza di cui parlano Ainis e Sgarbi non è quella
retorica, abusata, che cita alla rinfusa i cinquanta e più siti Unesco,
il Colosseo, la gastronomia eccetera. È più un nobile sentire, un
frammento della doppia elica del nostro Dna. È quella che la deputata di
Sel, Serena Pellegrino, vorrebbe innestare all’articolo 1 della
Costituzione. È un’appartenenza, per dirla alla Gaber, che ritroviamo in
ogni cosa, persino nel lessico elegante adoperato nella stesura della
Carta costituzionale, laddove si legge, all’articolo 2, che «La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo».
Quella ricercatezza nel parlare di giurisprudenza che in Italia ha dato
vita a un genere letterario, da Sciascia a Satta fino a Salvatore
Mannuzzu. E nella pittura ha ispirato L’Allegoria ed Effetti del Buono e
del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, affreschi custoditi nel
Palazzo comunale di Siena — importanti anche perché la raffigurazione
del lavoro, specie quello manuale, è stata discontinua e controversa
nell’arte fino al XIX secolo.
D’altra parte, in certi punti, la
Costituzione stessa sembra un poema in prosa, tanto è visionaria. Come
nell’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge». Per Sgarbi richiama una delle opere più
suggestive di Piero della Francesca, la parte centrale del Polittico
della Misericordia , dove la Vergine accoglie sotto il suo manto
generosi committenti e incappucciati dalla dubbia identità. O si
potrebbe accostare alla filosofia di Francesco d’Assisi, che rifiutava
persino i libri e la cultura in quanto portatori di discrimine tra i
simili.
Ma davvero per la Repubblica siamo tutti uguali in
partenza? — pensiamo solo alle battaglie recenti e accidentate per i
diritti delle donne o degli omosessuali. E davvero «La Repubblica
riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro»? Il libro conquista
con queste iniezioni di incredulità che si concatenano nella lettura
degli articoli della nostra bellissima, poetica, elegante Costituzione.
Anche quando, poi, le leggi che a questa dovrebbero ispirarsi finiscono
per diventare un romanzo popolare, con tranelli, ostacoli
incomprensibili o travestimenti da educanda (chi si ricorda che la legge
n. 194 del 1978, quella che ha depenalizzato l’aborto, s’intitola Norme
per la tutela sociale della maternità ?).
Eppure, letta in questa
chiave, con l’affabulazione di Sgarbi e la precisione storico-giuridica
di Ainis, la Carta che ha scritto le nostre radici repubblicane è, al
tempo stesso, un’ode alla bellezza e un invito (insistente) a
proteggerla. Rispecchiando, in questo, l’istinto italiano incarnato in
quelle genti che trasportarono l’ Assunta dei Frari di Tiziano: forse
non conoscevano nemmeno bene il valore preciso di quella Madonna, però
«sentivano» che era preziosa.