Corriere 10.5.16
«Io resto in corsa» Il mite Fassina e l’ombra del «trappolone»
Il candidato di SI escluso dal voto per Roma
intervista di Fabrizio Roncone
ROMA Il compagno economista Stefano Fassina si volta di scatto.
«Venga
un po’ a vedere…» (ha messo su il primo sorriso, dopo una conferenza
stampa corta e tribolata: due militanti hanno provato a chiuderla con un
applauso, ma l’atmosfera è cupa; se non rassegnata, pessimista).
Fassina
s’infila in un corridoio pieno di porte, in fondo alla sede del suo
comitato elettorale: uno stanzone al piano terra d’un palazzo di
Torpignattara, periferia sud, il Pigneto fighetto un po’ più su, qui
solo gerani appassiti che non vedono mai il sole e l’odore di cipolla
bruciata dei soffritti asiatici che arriva dalle finestre di fronte.
Un corridoio pieno di porte.
Tutte porte di materiali diversi.
«Sono finte».
Come finte?
«Finte. So’ finte...» (prova ad aprirne una di plastica gialla e una di legno: e, in effetti, non si aprono).
Cos’è, la trovata di un architetto?
«Sì,
magari. Questo era un negozio di porte. Lo abbiamo affittato così
com’era. Mica abbiamo i soldi di Marchini, che il comitato elettorale
l’ha piazzato in una delle sue regge... Ed è proprio per questo genere
di differenze che...».
Che? Continui.
«Io sono e resto in
campagna elettorale. Non posso tradire i volontari, la mia comunità, la
speranza che diamo a migliaia di romani. Alle mie due liste mancava
qualche data, errori materiali. Il Tar ci darà ragione».
Fassina
sembra anche più mite, più mingherlino del solito nel suo abito blu
indossato su Clarks marroni da bocconiano di sinistra.
Nessuno è
riuscito a fargli domande troppo ruvide, poco fa. Abbiamo tutti lasciato
che ci raccontasse la sua porzione di verità, l’errore stupido di
presentare le liste senza una data in grado di certificare che erano
state raccolte nei centottanta giorni antecedenti; un errore stupido,
grossolano: forse troppo stupido e troppo grossolano.
«Ecco, appunto: quindi?».
Quindi magari al compagno Fassina qualcuno ha teso un trappolone.
Nicola
Fratoianni s’appoggia al muro con l’aria seccata. È un pisano
belloccio, furbo e veloce, capisce la politica perché c’è cresciuto
dentro, una quindicina d’anni fa voleva fare la rivoluzione e adesso fa
invece il duro e puro tra i parlamentari che hanno aderito a Sinistra
italiana, l’ultimo esperimento per tenere insieme pezzi di sinistra vera
o presunta (ci sono quelli di Sel, fuoriusciti dal Pd come Fassina e
deputati in fuga da Grillo).
Fratoianni sa benissimo qual è la voce che gira in città: l’errore nelle liste non è casuale.
«Perché guarda me?».
Perché voi di Sel, fino all’ultimo, pur di non candidare Fassina a sindaco di Roma, avete immaginato altre soluzioni.
«Quella di Massimo Bray era solo un’ipotesi...».
E quella di Ignazio Marino? Marino, dico.
«I
nomi li avete messi voi sui giornali, perché vi piace creare casino. Ma
noi, da un certo punto in poi, siamo sempre stati compatti su
Fassina...» (la voce di Fratoianni s’abbassa di colpo, diventa un
filino, perché intorno ci sono altri parlamentari come D’Attorre e De
Petris e soprattutto perché Fassina, intanto, si è riavvicinato).
«Di che parlate, eh?».
Fassina
— 50 anni, moglie maestra elementare e tre figli: il più grande fa
l’ingegnere a Varsavia — ha sempre modi molto misurati, mai uno scatto
d’ira, sempre un velo che è un miscuglio di rigore e consapevolezza (da
responsabile economico del Pd andò a prendersi ceffoni e sputi dagli
operai dell’Alcoa. Poi, mezzo ammaccato, disse: «Avevano ragione,
purtroppo»). È di quelli tosti, con biografia non banale: via da Nettuno
(dov’era un campioncino del baseball), padre falegname e madre
casalinga che lo mandano a laurearsi in Discipline economiche e sociali
alla Bocconi, poi lo vedono partire per Washington (Fondo monetario) e
quindi tornare a Palazzo Chigi: prima consigliere economico di Vincenzo
Visco nel Prodi II, poi vice-ministro dell’Economia e delle Finanze (si
dimette quando Renzi, un giorno, rispondendo a una sua critica, dice:
«Fassina chi?»).
Fassina quello che prima di prendere casa
all’Esquilino, saliva su un trenino infernale per tornarsene a Nettuno e
gli altri pendolari lo sentivano al cellulare mentre discuteva con
certi tipi chiamati «Giovani turchi»: corrente piddina a caccia di
potere, cui hanno avuto accesso tutti tranne lui (Matteo Orfini è il
presidente del partito, Andrea Orlando il ministro di Grazia e
giustizia).
Lui, adesso, stava provando una scalata complicatissima qui a Roma.
«No,
scusi, abbia pazienza: le ho detto che continuo a provarci. Le pare
possibile facciano fuori l’unico candidato di sinistra?».
(Fratoianni, sempre appoggiato al muro, a capo chino).