Repubblica 9.4.16
I passi da compiere
di Roberto Toscano
L’autore è diplomatico e scrittore già ambasciatore in Iran e India
DOPO
l’ennesima presa in giro da parte delle autorità egiziane, l’Italia
dimostra di volere manifestare concretamente non solo la propria
insoddisfazione, ma la propria indignazione, per il comportamento
egiziano sul caso Regeni. Un comportamento che senza esagerazioni si può
definire provocatorio e offensivo, dal susseguirsi di grotteschi
tentativi di depistaggio alla riunione di Roma, dove la delegazione di
giudici e poliziotti egiziani non solo non ha consegnato gli elementi
più essenziali per un’indagine (a partire dai tabulati telefonici), ma
ha avuto la sfacciataggine di auspicare «che la parte italiana si mostri
comprensiva circa le procedure dell’indagine ».
Ritirando
l’ambasciatore per consultazioni il ministro Gentiloni segnala che
l’Italia non ha alcuna intenzione di essere «comprensiva», e invece
esige, pretende.
SEGUE A PAGINA 32
SI È parlato molto, da
quando è stato ritrovato il corpo martoriato del nostro giovane
connazionale, dell’amicizia fra i due Paesi e degli interessi economici
che rendono l’Egitto importante per le nostre imprese — come se
quell’amicizia e quegli interessi dovessero indurci a parlare sottovoce,
ad accettare verità di facciata clamorosamente in contrasto con i
fatti. L’amicizia non è un dogma o un feticcio, ma deve essere
dimostrata con i comportamenti, e inoltre è per definizione bilaterale,
dato che impone doveri reciproci. Per quanto riguarda gli interessi, non
andrebbe mai dimenticato che i Paesi che non si rassegnano a ruoli
marginali hanno sì grandi interessi, ma anche grandi valori, e inoltre
che se si perdono dignità e credibilità diventa difficile anche
perseguire con successo i propri interessi economici. Noi italiani
amiamo essere amati (da tutti, se possibile), ma ci sono momenti e
circostanze in cui si dovrebbe mettere l’accento sull’importanza di
essere rispettati.
Il caso Regeni, poi, non si presta di certo a
una trattazione fredda fatta di mediazioni e compromessi. Non siamo di
fronte a una controversia qualsiasi, ma a una vera e propria atrocità
alla quale sarebbe giusto reagire anche se la vittima non fosse un
connazionale. Si tratta di una questione che riguarda il più
fondamentale dei diritti umani, quello alla vita, e per di più in
presenza di un’indicibile e sistematica ferocia. L’Italia, che ha da
tempo assunto un ruolo di punta nella lotta alla pena di morte, non può
certo essere tiepida di fronte a un’esecuzione extragiudiziale
accompagnata da quel crimine contro l’umanità che è la tortura.
E
adesso? Il ritiro dell’ambasciatore Massari non è la rottura dei
rapporti diplomatici, un passo che non è prevedibile e nemmeno
consigliabile, dato che le ambasciate servono a difendere gli interessi
nazionali anche nelle situazioni più difficili e con i governi più
indecenti e ostili. Ma si possono immaginare altre misure, ad esempio
dichiarare l’Egitto come Paese non sicuro, dove ai nostri connazionali
viene sconsigliato di recarsi. Più che di una rappresaglia si
tratterebbe di una constatazione: se non ci sono garanzie per un nostro
ricercatore, se le autorità non garantiscono che i responsabili di
quell’omicidio siano individuati e puniti, diventa normale avvisare sia i
nostri turisti che i nostri operatori economici che in Egitto ci vanno a
proprio rischio e pericolo — molto rischio e molto pericolo.
Dobbiamo
quindi manifestare pieno consenso con la linea del Ministro Gentiloni,
nella speranza che si tratti di una linea coerente e soprattutto che
venga sostenuta nei prossimi giorni e prossime settimane.
Ma non
si può fare a meno, a questo punto, di chiederci quali saranno i
prossimi passi da parte del regime egiziano. Che si tratti di un regime
non dovrebbero esserci dubbi. Fra l’altro il povero Giulio non è stato
il solo ad essere stato fatto sparire o ad essere ucciso — da parte di
criminali, certamente, ma non criminali comuni. Cercando di penetrare la
cortina fumogena di menzogne e depistaggi ci sia permesso, nell’attesa
di una ricostruzione basata su fatti dimostrati, di formulare un’ipotesi
di fondo, che è quella del coinvolgimento di elementi che operano nel
quadro del variegato panorama delle strutture repressive del regime
egiziano. Che cinque delinquenti siano stati uccisi in un presunto
scontro a fuoco (uno, a quanto hanno detto i parenti, con una sola
pallottola in testa) e poi accusati di essere i responsabili
dell’omicidio di Giulio Regeni appare un’involontaria confessione, se si
pensa che il regime egiziano usa notoriamente gruppi di delinquenti
comuni per i lavori più sporchi.
Se è vero però che il delitto è
maturato nell’ambito del regime il punto non è tanto individuare i
manovali dello “squadrone della morte”, ma i mandanti. E qui sorge un
problema serio per al Sisi — un problema che minaccia anche di tradursi
in difficoltà nel raggiungere finalmente una credibile soluzione del
caso. Se a monte di questo delitto, come ormai sembra probabile,
troviamo un alto ufficiale, come quel generale Shalaby di cui si è
ultimamente parlato, non sarà facile per al Sisi — che forse a questo
punto non chiederebbe di meglio che togliere di mezzo questo per lui
fastidioso problema — dare un suo non secondario collaboratore in pasto
alla giustizia.
Certo, al Sisi è un dittatore, ma non lo è in
quanto personaggio carismatico. Non è né un Führer né un Duce, ma
rappresenta piuttosto l’attuale vertice di un “dittatore collettivo”:
quelle Forze armate egiziane e quegli organismi di sicurezza che nella
sostanza detengono tutto il potere dal momento dalla caduta di re Farouk
all’inizio degli anni 50 — un potere collettivo, una corporazione, che
prevedibilmente intende difendersi anche contro la volontà di al Sisi.
Siamo ben oltre il caso giudiziario, e anche oltre la questione dei
rapporti con l’Italia.
Non sarà facile, per il regime egiziano,
rispondere agli interrogativi non solo criminali sollevati dal
martoriato corpo di Giulio Regeni.