il manifesto 9.4.16
Manconi: «Ora il goveno agisca con più determinazione sul caso Regeni»
Il
presidente della commissione Diritti umani: «Irrinunciabile ora - e di
certo efficace - dichiarare l’Egitto Paese non sicuro. Il premier
eserciti la pressione politica ed economica»
intervista di Eleonora Martini
Senatore
Luigi Manconi, da presidente della commissione Diritti umani, lei ha
seguito fin da subito, e a stretto contatto con la famiglia, il caso
Regeni. E aveva anche previsto il sostanziale fallimento del vertice tra
investigatori, ultima chance della linea attendista del governo Renzi.
Mai
come in questo caso aver indovinato una previsione mi lascia un senso
tragico di frustrazione. Aver immaginato questo esito non mi dà alcuna
soddisfazione, anzi, e mi fa sentire ancora più drammatico il tanto
tempo perduto e l’impotenza che in questi due mesi abbiamo dovuto
registrare. Non sto accusando alcuno, perché il comportamento del
ministro degli Esteri è stato prudente – personalmente l’ho considerato
troppo prudente – e tuttavia Gentiloni è stato molto attivo, generoso e
costantemente concentrato sulla ricerca di un esito positivo.
Si è scommesso sulla trattativa attraverso canali riservati. Che cosa non ha funzionato?
Chiariamo
una volta per tutte: una trattativa bilaterale che ruota intorno ad un
orribile caso di tortura e omicidio comporta necessariamente il ricorso a
canali riservati, a pressioni non pubbliche, a negoziati e a mediazioni
continue. Ciò che penso è che questa via obbligata non sia stata finora
accompagnata da un adeguato ricorso della forza democratica di cui il
nostro Paese dispone. E della pressione politica ed economica che
avrebbe potuto, e che ora più che mai deve, esercitare. Mi sembra di
aver colto in sostanza, pur all’interno di una strategia razionale quale
quella del ministro Gentiloni, qualcosa di simile a un complesso di
inferiorità. Quasi che non fossimo noi, in questa circostanza, a
trovarci in una posizione di forza.
In ballo ci sono gli interessi economici delle nostre imprese.
Lo
ripeto: l’Italia è il secondo mercato europeo per i prodotti egiziani,
lo sfruttamento del giacimento di gas Zhor interessa il nostro Paese ma
altrettanto o ancora di più l’Egitto, e il pil egiziano per il 12,8% è
dato dal turismo. Tre strumenti formidabili, democratici e non bellici, e
tre leve che avrebbero dovuto essere utilizzate e che mi aspetto
vengano messe in moto a partire da oggi.
Ma anche l’idea che Al Sisi sia una pedina fondamentale nella guerra contro il terrorismo islamico ha avuto il suo peso.
Non
c’è alcun motivo perché si rinunci a quel ruolo che l’Egitto può
giocare, ma mi rifiuto di accettare la falsa alternativa tra tutela dei
diritti umani e le necessarie relazioni geo-politico-militari. Dunque,
il richiamo dell’ambasciatore – richiamo e non ritiro – era ed è
l’elementare premessa.
Se è una premessa, quali mosse si possono prevedere adesso?
Il
richiamo dell’ambasciatore non significa rompere le relazioni ma
condurle con maggiore determinazione e con quel tanto di asprezza
indispensabile. Ad esempio, dichiarare l’Egitto Paese non sicuro perché
non ha offerto garanzie a Giulio Regeni, non le offre a migliaia di
anonimi egiziani e stranieri che vivono lì, e non può offrirle a tanti
nostri connazionali e a tanti europei che vorrebbero visitare l’Egitto, è
una conseguenza irrinunciabile e che può rivelarsi assai efficace.
Perché non è bastata l’autorevolezza del premier italiano che peraltro Al Sisi considera suo «amico»?
Perché
evidentemente in quell’omicidio emerge la compromissione di segmenti
degli apparati statali, e non solo di bassa forza, ai quali Al Sisi non
può rinunciare. E dei quali non può liberarsi. In qualunque caso: sia
che lo stesso al Sisi conoscesse in anticipo, o che avesse appreso in
seguito, quanto accaduto al nostro connazionale.
Il premier italiano non poteva immaginare un simile epilogo?
Matteo Renzi è stato vittima ancora una volta, diciamo così, del suo giovanile ottimismo.
La barra dritta l’ha tenuta il procuratore capo di Roma. Qual è il ruolo di Giuseppe Pignatone?
Pignatone
aveva fatto intendere sin dal primo momento che il suo ruolo era quello
del fedele servitore dello Stato, che metteva a disposizione le sue
grandi doti anche se in un quadro che riteneva compromesso. Si è
comportato così perché gli è stato chiesto dal governo e per carità di
patria. Ha resistito fino ad oggi per il suo modo coerentissimo di
intendere il proprio dovere. Poi c’è un momento in cui anche il più
freddo uomo delle istituzioni perde la pazienza.