sabato 9 aprile 2016

Il Sole 9.4.16
Reazione doverosa davanti all’ennesimo bluff egiziano
di Alberto Negri

Alla Scuola di Polizia, in un angolo del quartiere Flaminio dove De Sica girò “Ladri di biciclette”, gli egiziani hanno messo in scena l’ennesimo maldestro bluff sul caso di Giulio Regeni. E come nel capolavoro del neorealismo ieri scendeva un tramonto amaro sulle aspettative che i poco credibili poliziotti egiziani portassero qualche esile elemento di verità per illuminare l'assassinio del giovane ricercatore.
Il richiamo dell’ambasciatore Maurizio Massari dal Cairo è un atto doveroso, tanto più significativo perché è un gesto inusuale della nostra diplomazia, incline in genere a tenere saggiamente sempre aperti i canali di dialogo anche nelle situazioni più scabrose.
Gli egiziani non hanno lasciato scelta alle autorità italiane perché non dimostrano, come era prevedibile, nessuna intenzione di collaborare. Promettevano di venire carichi di faldoni ma la nutrita squadra di traduttori dall’arabo si è trovata davanti a uno striminzito dossier di cose già note.
Gli egiziani, forse per le loro difficoltà interne, hanno inscenato una presa in giro. Soprattutto non hanno prodotto l’elemento ritenuto fondamentale per la procura di Roma: i tabulati di tutti i telefoni del quartiere di Doki, dove il 25 gennaio è scomparso Regeni, e dove è poi stato ritrovato cadavere, sulla superstrada Cairo-Alessandria il 3 febbraio. L’analisi di questi dati è determinante per capire quali telefoni fossero presenti nella zona quando è sparito. Incrociandoli con quelli della zona del ritrovamento, gli investigatori non escludono di individuare la pista giusta per arrivare ai torturatori e agli assassini del ricercatore.
Peggio ancora. Gli egiziani insistono sulla tesi del coinvolgimento della criminalità comune che sembrava accantonata e puzzava da lontano di depistaggio. Si tratta della vicenda dei documenti di Giulio Regeni, “riemersi” dopo due mesi a casa della sorella del presunto capo di una banda di sequestratori implicata nella scomparsa dell'italiano. Banda che non può più difendersi dalle accuse poiché tutti i componenti sono stati “provvidenzialmente” uccisi in uno scontro a fuoco con le forze di polizia.
In realtà gli uomini mandati dal presidente-generale Al Sisi vogliono soltanto prendere tempo e sperano che questa storia ignobile finisca inabissata nel dimenticatoio. Ma gli italiani per il momento non possono rinunciare alla verità perché questo governo lo ha promesso alla famiglia e al Paese, sottolineando che è in gioco l’onore e la dignità dell’Italia. Per ora questo rimane uno scontro bilaterale tra Roma e il Cairo ma non è escluso che possa diventare una vicenda internazionale: Regeni aveva un incarico per un’Università britannica, altri ricercatori italiani e stranieri continuano a studiare sul campo, in Egitto, le stesse tematiche. Un aspetto da non sottovalutare. Forse il generale Al Sisi si è spinto un po’ troppo in là anche per i nostri cosiddetti alleati europei e occidentali, di solito assai restii a darci una mano.
Anche se già si sentono voci discordanti su questa vicenda. Qualcuno ha cominciato a osservare che il generale mantiene l’”ordine”, che senza il suo colpo di stato un Paese chiave negli equilibri regionali sarebbe precipitato nel caos, che gran parte della popolazione è dalla sua parte, anche se molti non la pensano per niente così e si contano migliaia di scomparsi e di casi di tortura. Gli egiziani chiedono agli italiani di essere “comprensivi” e in maniera informale fanno correre voci di complotti sulle rive del Nilo ai danni del generale e di lotte intestine tra servizi segreti concorrenti. Ma non si può essere troppo comprensivi con chi dimostra di mentire spudoratamente: Regeni, nella loro prima versione, doveva essere morto travolto in un incidente stradale.
Non illudiamoci però di avere troppo leve per ottenere la verità. L’Italia ha scambi economici rilevanti ma non tali da stritolare l’Egitto in una morsa soffocante e il famoso contratto Eni sui giacimenti di Zhor probabilmente non verrà toccato. Il caso Regeni deve però far riflettere il governo italiano che l’anno scorso “sdoganò” Al Sisi e ora si prepara a firmare importanti contratti con l’Iran: la politica viene prima degli affari anche nelle relazioni internazionali e per avere buoni affari serve una buona politica. Se si cede sul caso Regeni lo standard del Paese affonda e avremo anche cattivi affari.