Repubblica 6.4.16
Da emancipazione a fatica la metamorfosi del lavoro
La mondializzazione dei mercati ha allontanato sempre di più i diritti Qui si gioca il futuro delle nostre democrazie
di Nadia Urbinati
IL
DECLINO del riformismo sociale, scrive Ezio Mauro, è il segnale di una
crisi ben più vasta che coinvolge lo stato democratico. Un declino che
ha coinciso con l’emergere di fattori di mutamento profondi per la
trasformazione dei rapporti politici connessi al lavoro: il declino del
compromesso tra capitalismo e democrazia (per la trasformazione del
primo da industriale a finanziario) e l’apertura dei confini
simbolizzata dalla fine della Guerra fredda.
Le frontiere hanno
consentito il riformismo sociale e la costruzione delle democrazie. In
sostanza hanno reso possibile il compromesso tra capitalismo e
democrazia, per cui chi possedeva i mezzi di produzione ha accettato
istituzioni politiche nelle quali le decisioni erano prese contando i
voti di tutti. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e
politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi
devastante del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e
regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al
pubblico un ruolo centrale che, invece di assistere i poveri, li
impiegava o li trasformava in forza lavoro. Si trattò di un cambiamento
anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez
faire alle politiche economiche programmatiche. Questo generò incremento
della domanda e ripresa dell’occupazione: come disse il presidente
francese Léon Blum, l’investimento nel lavoro è un investimento nella
democrazia. È questo il senso dell’articolo 1 della nostra Costituzione,
che presume confini nazionali e il controllo di entrata della forza
lavoro, una politica che i Trattati di Roma (1957) hanno esteso al
territorio dell’Unione, la nuova dimensione geografica alla quale venne
esteso il diritto di circolazione dei lavoratori e dei beni.
L’esito
di quel compromesso novecentesco fu che i poveri diventarono davvero i
rappresentanti dell’interesse generale della società: non una massa di
disperati che la propaganda nazionalistica poteva manovrare, ma forze
sociali organizzate in partiti che si incaricavano di essere
rappresentativi di interessi sociali che la crescita economica
consentiva di moderare e di disporre al compromesso. L’esito di questo
bilanciamento delle popolazioni e degli interessi fu che l’allocazione
delle risorse economiche — dal lavoro ai beni primari, fino ai servizi —
venne gestita dalle forze politiche, mentre le classi sociali
rinunciavano a fare da sole. La politica acquistò autorità e
autorevolezza.
Il legame tra lavoro e politica, tra confini e
potere di trattativa sui salari e sui diritti, si è allentato con il
declino del mondo diviso, con la fine della Guerra fredda. L’apertura
globale dei mercati e la decadenza del valore sociale del lavoro stanno
insieme e si riflettono nel declino del riformismo sociale, che non può
contare solo sulla buona volontà. La politica senza una condizione
sociale di riferimento non è da sola capace di far rivivere il
riformismo. Il secondo Dopoguerra è nato su fondamenti molto
strutturati, tanto a livello nazionale che a livello internazionale. La
divisione Est e Ovest si rifletteva in due modelli di democrazia alla
base dei quali vi era comunque il lavoro: la democrazia “borghese” da un
lato e quella socialista dall’altro. Nel primo caso, quello che ci
interessa e che è sopravvissuto più a lungo, la difesa di diritti
sociali aveva il compito di neutralizzare il peso delle diseguaglianze
nel potere di prendere le decisioni politiche: dando a tutti i cittadini
alcune opportunità di base, come sanità e scuola pubblica, lo stato
democratico poteva garantire l’inclusione di tutti a egual titolo,
lavoratori e capitalisti.
Nei paesi occidentali, la sfida lanciata
dal mondo sovietico ha funzionato da deterrente per contenere le
diseguaglianze con la messa in cantiere di uno stato sociale che doveva
provare al mondo socialista di riuscire a coniugare le libertà
economiche con la libertà politica e il benessere diffuso. La
ricostruzione del Dopoguerra aveva del resto aperto grandi possibilità
di crescita economica senza bisogno di uscire dai confini per trovare
manodopera a basso costo. Sui confini tra Est e Ovest si è costruita la
cultura dei diritti sociali e la filosofia lavorista, l’idea che il
lavoro fosse certamente fatica e necessità ma che l’azione politica
associata avrebbe potuto renderlo condizione di emancipazione. Le
politiche di piena occupazione e l’espansione dei diritti hanno marciato
insieme, in un mondo che aveva confini.
Questo scenario è
radicalmente cambiato con la mondializzazione dei mercati e come
conseguenza il lavoro sta tornando poco a poco ad essere semplicemente
fatica, dissociato dai diritti e dall’emancipazione politica.
Ricostruire una cultura riformatrice dovrà comportare la ricomposizione
del legame tra lavoro e diritti, affinché i molti non siano preda della
propaganda nazionalista, affinché la prospettiva di vita che le
democrazie offrono sia comparabilmente migliore di quella che le sirene
xenofobiche promettono. È quindi sulla capacità della politica di
ricatturare il lavoro che si gioca il futuro delle nostre democrazie.