La Stampa 6.4.16
Regeni, l’Egitto offre la prima testa
C’è un colpevole per la morte di Giulio. Al Sisi sacrifica l’investigatore dei Servizi
Il responsabile delle torture sarebbe Shalaby, il generale incaricato del caso
Gli inquirenti egiziani attesi oggi a Roma con un dossier di duemila pagine
di Francesca Paci
A
poco più di due mesi dal ritrovamento del corpo martoriato di Giulio
Regeni c’è una svolta nel governo egiziano, come se negli ultimi giorni
fosse maturata al Cairo la volontà di collaborare seriamente con
l’Italia alla ricerca della verità o di una parte di essa. La
delegazione di inquirenti attesa oggi a Roma dovrebbe portare non solo
l’annunciato faldone di duemila pagine sul ricercatore friulano ma
almeno un nome, l’indicazione di una responsabilità che stavolta non
condurrebbe a improbabili gang criminali o strampalati fuori pista bensì
ad apparati del regime stesso. Una fonte al Cairo suggerisce che il
nome da «sacrificare» potrebbe essere quello del generale Khaled
Shalaby, l’alto ufficiale della sicurezza nazionale incaricato del caso
Regeni già condannato nel 2003 da un tribunale di Alessandria per aver
torturato a morte un uomo e falsificato i rapporti della polizia ma
reintegrato dopo la sospensione della sentenza.
Si rompe il muro
di gomma eretto dalle autorità egiziane depistaggio dopo depistaggio?
Quello che fonti italiane al corrente delle indagini considerano un
“movimento nuovo” avviene nel quadro di un processo a più tappe. Le
prime due fanno riferimento al quotidiano «al Ahram», la «Pravda»
egiziana, che alla fine della scorsa settimana ha pubblicato prima un
articolo un po’ vago sul possibile coinvolgimento sui servizi e poi
(domenica) un editoriale del direttore Mohammed Abdel-Hadi Allam
sull’urgenza di risolvere un caso che sta rovinando la reputazione
dell’Egitto, danneggiandone i rapporti internazionali e che potrebbe
innescare l’«effetto Khaled Said», l’attivista picchiato a morte dalla
polizia di Alessandria nel 2010 trasformatosi in pochi mesi una delle
micce di piazza Tahrir (Giulio Regeni sta diventando il catalizzatore
del malcontento diffuso dei giovani egiziani colpiti dalla repressione
che lo definiscono «uno di noi»). La terza importante tappa è
l’appuntamento romano degli inquirenti del Cairo, una missione
annunciata, smentita e poi riconfermata in un tira e molla che fa
pensare a uno scontro interno tra “colombe” disposte a dialogare con
l’Italia (ergo cedere) e irriducibili del negare a oltranza con storie
fantascientifiche. Anche ieri, dopo le parole dure del ministro
Gentiloni, il Cairo ha inviato due messaggi differenti: quello
pomeridiano piccato del ministero degli Esteri («così si complica la
situazione») e la determinazione del presidente Al Sisi che in serata ha
ribadito di auspicare «piena collaborazione» con Roma.
Difficile
decifrarli, ma i movimenti egiziani sono evidenti. Sullo sfondo c’è un
sistema d’intelligence dalle anime diverse e conflittuali la cui
tensione interna è cresciuta con l’aggravarsi della situazione del
Paese, che secondo fonti del Fondo Monetario Internazionale è vicino al
collasso economico. Da una parte c’è il Mabahith Amn ad-Dawla,
altrimenti detto State Security, i famigerati servizi segreti del
ministero degli Interni, di cui fa parte il generale Shalaby, detestati
dagli attivisti che dopo la deposizione di Mubarak ne ottennero lo
scioglimento salvo vederli rinascere sotto il nome di Al-Amn al-Watani,
Homeland Security. Dall’altra c’è il General Intelligence Directorate,
alias il vero e proprio mukabarat, una sorta di Cia che si occupa di
minacce terroristiche esterne anziché interne e che oggi è ai ferri
corti con il regime per aver visto i suoi vertici sostituiti dagli
uomini di Al Sisi provenienti dal terzo ramo degli 007 egiziani, quello
miliare, l’Idarat al-Mukhabarat al-Harbiyya wa al-Istitla (Military
Intelligence and Reconnaissance Administration). In questo scontro di
poteri sul ciglio dell’abisso s’inserisce anche la vicenda Giulio
Regeni.
Racconta la nostra fonte che dopo settimane di
tentennamenti nel governo si sarebbe fatta largo la consapevolezza di
dover «sacrificare» qualcuno di concreto, un responsabile vero,
realisticamente coinvolto nel caso Regeni. E al Cairo tutte le voci
(comprese alcune vicine al regime) puntano in direzione del ministero
dell’Interno. La doppia uscita «anti-istituzionale» del quotidiano
istituzionale «al Ahram» non è certamente casuale: quello di utilizzare i
mezzi del regime per parlare indirettamente alla struttura interna del
regime è un vecchio metodo sovietico già utilizzato in Egitto da Nasser.
Un altro indicatore del cambio di passo si coglie nel fatto che
inizialmente il team di inquirenti inviati a Roma comprendeva solo
agenti e funzionari di polizia mentre alla fine oggi dovrebbero arrivare
anche dei magistrati, segno della volontà politica di assegnare un
ruolo importante alla Procura generale del Cairo, gli uomini più vicini
ad al Sisi.
Basterà? Fonti italiane lasciano intendere non solo
che è verosimile la «consegna» di almeno un nome da parte degli inviati
del Cairo, non solo che le piste per la soluzione del caso puntano
seriamente verso gli apparati dello Stato, ma che per l’Italia potrebbe
“non essere abbastanza” e che se dovesse emergere il coinvolgimento di
un ramo o rami dei servizi sarebbe difficile credere si possa essere
trattato di una persona sola (sia o meno Khaled Shalaby). La verità
sulla morte di Giulio Regeni resta dunque sospesa. Ma sembra che i mille
vettori scagliati a 360 gradi negli ultimi due mesi comincino a
convergere verso una direzione e che l’epilogo non sia lontanissimo da
dove è iniziata la storia, come a lungo si è voluto far credere.