Repubblica 4.4.16
A qualcuno piace Brexit
di Ilvo Diamanti
SI
È APERTA, in Italia, una stagione di democrazia diretta. Segnata da due
referendum con diverso contenuto e diverso significato. Fra due
settimane: la trivellazione dei pozzi petroliferi. In autunno: le
riforme costituzionali. Ma il ricorso alla consultazione referendaria va
ben oltre i nostri confini e le nostre questioni interne, per quanto
importanti. Nel Regno Unito, nei prossimi mesi, si voterà per restare
nell’Unione Europea. O meglio: per uscirne. D’altronde, i cittadini del
Regno Unito non hanno mai amato l’Europa.
Come comunità economica.
Tanto meno come soggetto politico. E questo sentimento si è complicato e
accentuato negli anni della crisi economica. Quando il debito
comunitario e degli Stati membri è cresciuto. Minacciando anche coloro
che ne erano e ne sono meno responsabili. Come, appunto, l’Uk. Così lo
spirito euroscettico si è diffuso ulteriormente. Solo un terzo dei
cittadini del Regno Unito, infatti, esprime fiducia nei confronti della
Ue. Come in Italia, peraltro. Dove, però, prevale un atteggiamento
tattico e disincantato. Visto che la maggioranza della popolazione non
“ama” la Ue – e tanto meno l’euro. Ma teme di uscirne. Per prudenza. Gli
italiani: si dicono europei “malgrado”. Nonostante tutto. I cittadini
del Regno Unito: molto meno. Il loro legame con le istituzioni europee è
più precario. Perché confidano maggiormente nel loro sistema di
governo. E, tanto più, nella loro moneta. In politica internazionale,
peraltro, si sentono “atlantici”. Guardano, cioè, agli Usa piuttosto che
all’Europa. Piuttosto che alla Ue.
Così, l’atteggiamento
euroscettico si è tradotto in voglia di distacco. Tanto che Ukip, il
partito guidato da Nigel Farage che predica apertamente l’uscita dalla
Ue, alle elezioni europee del 2014 ha superato il 27%. L’emergenza
sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le
tensioni. All’interno del Regno Unito. E fra il Regno Unito e i Paesi
europei. Per prima: la Francia.
Oggi, dunque, ci stiamo
avvicinando a questo passaggio. Senza ritorno. Perché un voto favorevole
all’uscita dalla Ue aprirebbe una crisi probabilmente fatale in una
costruzione fragile e instabile come la Ue. Con il rischio di riprodurre
le fratture anche nel continente. Dove i legami con l’istituzione
europea risultano poco solidi. Ad eccezione che in Germania e nei Paesi
dell’Est che ambiscono a farne parte. I sondaggi, al proposito,
confermano dubbi e incertezze. Visto che disegnano uno scenario aperto.
Dove i sì e i no all’uscita dall’Unione Europea si equivalgono (intorno
al 35-40%). Mentre gli indecisi sono ancora molti. Circa un quarto. E
risulteranno, per questo, decisivi. Così, la campagna in vista della
scadenza referendaria si fa sempre più accesa. E l’argomento che sta
assumendo importanza crescente è il costo della Brexit. Per gli europei,
ma ancor più nel Regno Unito. La cui economia, si sostiene, soffrirebbe
molto, in caso di “defezione”. Tuttavia, questa minaccia non sembra
scoraggiare chi, in fondo, ne tiene già conto. E, nonostante tutto,
sceglie la strada della “secessione”.
Diverso, semmai, è il
discorso per i cittadini europei che non vivono nel Regno Unito. I quali
verrebbero, inevitabilmente, coinvolti da questa scelta. Tuttavia, gli
atteggiamenti, in proposito, appaiono differenziati e incerti. Almeno in
Italia. Perché, probabilmente, molte persone non ci hanno ancora
pensato. D’altronde, se per i cittadini del Regno Unito, è difficile
decidere, figurarsi per gli altri… In Italia, comunque, metà della
popolazione (intervistata da Demos) teme l’uscita del Regno Unito dalla
Ue. Ritiene, infatti, che produrrebbe effetti negativi non solo nel
Regno Unito. Anche da noi. Ma ciò significa che l’altra metà la pensa
diversamente. In particolare, due italiani su dieci non percepiscono il
rischio di conseguenze particolari. Si tratta, soprattutto, degli
elettori più disincantati e indifferenti. Gli “astenuti”. Non solo dalla
politica, anche dall’Europa. Quelli che tracciano i confini del proprio
orizzonte pubblico a poca distanza da loro. Una frazione molto limitata
vede questa scelta pericolosa per il Regno Unito ma non per l’Europa.
Mentre è molto più elevata (15% circa) la quota di coloro che ritengono
l’uscita dell’Uk un problema per gli europei, ma, al contrario, un
beneficio per i cittadini britannici. Poco inferiore è il consenso alla
Brexit “senza se e senza ma”. Considerata un beneficio per tutti. Senza
eccezione.
I tifosi della defezione sono, in tutti i casi, ben
definiti e identificabili. Hanno, cioè, un profilo politico coerente.
Partecipano, infatti, alla corrente euroscettica. Sono, per questo,
particolarmente numerosi fra gli elettori della Lega e di Forza Italia.
In misura relativamente più limitata, nella base del M5s. Tra coloro che
esprimono sfiducia nei confronti della Ue, in particolare, sono tre
volte di più che tra gli euro- convinti. Rispecchiano, in qualche
misura, le preferenze politiche di coloro che vedono nella Brexit un
beneficio esclusivo per chi vive nel Regno Unito.
È facile
comprendere la ragione di questo orientamento. Non si tratta solo di
empatia. È di più: identità. Sostegno convinto. Segno che anche in
Italia c’è chi tifa per la Brexit. In modo aperto. Esplicito. Perché
favorisce un progetto sostenuto da altri movimenti e soggetti politici,
di altri Paesi. In altri termini: chi tifa per la Brexit, in Italia,
tifa per la fine della Ue. Immagina e spera che la costruzione europea,
in seguito alla defezione del Regno Unito, non solo subirebbe una
battuta di arresto, ma potrebbe intraprendere un percorso inverso. Verso
la disgregazione invece che verso l’unità.
Per questo il
referendum che si svolgerà nell’Uk ci riguarda direttamente. Quanto,
almeno, quello sulle trivelle. E persino il referendum costituzionale.
Perché nel Regno Unito, in quell’occasione, si voterà anche per noi.
Visto che si scrive Brexit, ma si può leggere Itexit.