Repubblica 3.4.16
La globalità della corruzione
di Roberto Toscano
DA
qualche tempo a questa parte il tema della corruzione occupa le prime
pagine dei nostri giornali e attira l’attenzione, e lo sdegno,
dell’opinione pubblica. Non mancano i cinici che, autodefinendosi
realisti, fanno notare che la corruzione è sempre esistita.
DEPLORANO
quello che definiscono moralismo e denunciano le campagne
anti-corruzione come sempre tendenti a squalificare l’avversario
politico. Invece occuparsi, e preoccuparsi della corruzione, oggi
convertita in una perversa normalità, non è moralismo, ma una oggettiva
necessità sia politica che culturale.
Come punto di partenza
dovremmo cercare di liberarci da molti luoghi comuni. Il primo è quello
che la corruzione sia un inevitabile corollario della democrazia, mentre
le dittature sarebbero in grado di stroncarla grazie alla loro spietata
inflessibilità repressiva. Falso. Si sapeva di certo che Pinochet era
un assassino, ma è poi risultato che era anche un ladro e che aveva
trasferito su un conto di Washington denaro pubblico di cui si era
illegalmente appropriato. E che dire della Cina, dove i corrotti sono
arrivati a un “fatturato” di miliardi di dollari a dispetto dei
ricorrenti processi che si concludono anche con condanne a morte?
L’altro
luogo comune è che la corruzione sia esclusivamente legata al
capitalismo, sistema che si basa sulla legittimazione anche culturale
dell’avidità («L’avidità è buona. L’avidità funziona» — come dice Gordon
Gekko nel film Wall Street), e che l’unico antidoto sia quello di
un’etica rivoluzionaria basata sui doveri sociali e sull’austerità.
Falso. La Corea del Nord, il meno democratico e il meno capitalista fra i
sistemi politici esistenti, è elencata da Transparency International in
testa alla classifica della corruzione a pari merito con la Somalia, lo
stato fallito più anarchico del mondo. Prendiamo alcune fra le grandi
cause rivoluzionarie del secolo scorso. Il successore di Mandela, il
presidente sudafricano Zuma, è appena stato incriminato per uso privato
di fondi pubblici, e la classe dirigente del glorioso African National
Congress è coinvolta in una serie di scandali. Daniel Ortega, l’eroe
della rivoluzione sandinista in Nicaragua, ha impiantato un regime in
cui la retorica rivoluzionaria è ormai solo una consunta copertura di un
sistematico andazzo corruttivo. In Angola, ancora governata da quel
Mpla che aveva resistito, con l’aiuto cubano, all’attacco combinato di
Sudafrica e Cia, la figlia del presidente dos Santos è diventata la
prima miliardaria africana. È vero che il tema della corruzione viene
usato contro gli avversari politici. Sta avvenendo in Brasile, contro
Dilma Rousseff e Lula, ma il problema è che la corruzione c’è davvero, e
a livelli colossali.
Altro luogo comune è quello che la
corruzione sia un fenomeno del settore pubblico. Come se le frodi che
hanno innescato la crisi finanziaria globale non fossero attribuibili a
Wall Street — anche se con la complicità dei “cani da guardia” federali
che non hanno abbaiato. In Italia tutti danno addosso alla pubblica
amministrazione e ai suoi funzionari, definiti come una manica di
disonesti parassiti. Pubblico cattivo/ privato buono. Viene in mente La
fattoria degli animali di Orwell: “due gambe cattivo, quattro gambe
buono”. Come se potesse esistere un funzionario pubblico corrotto senza
un privato corruttore — come se ci potesse essere la prostituzione senza
i clienti. Basterebbe ascoltare con attenzione i linguaggi, oltre che i
contenuti, delle intercettazioni per capire con quanta protervia,
quanta arroganza, i corruttori privati sentono di poter dominare i loro
prezzolati manutengoli nella pubblica amministrazione.
Ma cosa
spiega il fatto che la corruzione sia passata da trasgressione a
sistema? Non certo che l’umanità sia diventata più criminale. E nemmeno
che siano venuti meno i freni derivanti dai precetti religiosi: che la
fede religiosa non sia incompatibile con la corruzione e in genere la
criminalità lo dimostrano fatti come i santini nel covo di Provenzano e
l’appartamento del cardinale Bertone, finanziato con i soldi
dell’ospedale Bambin Gesù. Senza parlare dei corrotti ayatollah iraniani
e degli iper-religiosi/iper-corrotti sauditi.
Qualcosa di
profondo è però avvenuto. Si tratta del restringersi degli orizzonti
culturali all’interno di una comunità che non è globale né nelle norme
né nella solidarietà, ma è unificata rispetto a quello che è ormai il
criterio singolo del valore, del successo, della stessa identità: il
denaro.
Ha ragione il Papa quando parla di idolatria. Si tratta
della perdita di rilevanza della molteplicità di valori e obiettivi che
dovrebbero dare un senso alla vita umana, ma che oggi risultano
accantonati per lasciare tutto il campo a uno spirito acquisitivo in
termini di denaro e del benessere e potere che dal denaro si possono
ricavare. Un tempo il denaro serviva ad acquisire potere, oggi il potere
viene usato per conseguire il denaro. Sarebbe assurdo manifestare
nostalgia per il tempo delle ideologie totalitaria e dei loro crimini,
dalla Shoah al Gulag, ma non dovremmo cadere nell’errore di non vedere
la totalità idolatrica di quella che è oggi l’ideologia dominante. Non
avrebbe senso a questo punto ripercorrere le fallite strade della lotta
contro Mammona e contro il Capitale e riproporre pauperismo o
collettivismo. Dobbiamo lottare non contro, ma per. Riconoscendo il
giusto spazio che l’aspirazione al benessere occupa nel quadro di un
sano equilibrio etico-antropologico, dovremmo ridare diritto di
cittadinanza a tutto quello che il denaro e il “pensiero unico” che lo
accompagna hanno accantonato, negato, squalificato, strumentalizzato:
arte, cultura, religione, etica, politica.
Si deve certo
combattere la corruzione con gli strumenti della legge, ma la vera
battaglia dovrà essere quella, di natura culturale ed etico-politica,
anti-totalitaria e anti-idolatrica. Altrimenti non servirebbe nemmeno —
né in Italia né altrove — mettere un poliziotto dietro ogni cittadino e
sottoporlo a intercettazioni costanti.