Repubblica 3.4.16
Il fiammifero della Guidi e l’incendio che ora divampa
di Eugenio Scalfari
DA
QUANDO la ministra Federica Guidi ha dato le dimissioni, incoraggiate
(si fa per dire) dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il
dibattito politico ha assunto dimensioni mai raggiunte negli ultimi
dieci anni. Argomenti prima distinti si sono intrecciati: democrazia,
partiti, rottamazione, riforme economiche, riforme costituzionali,
elezioni amministrative, referendum abrogativi, referendum confermativi,
clientele, questione meridionale, Europa confederata o federale,
terrorismo, immigrazione, Libia, Turchia, un magma di problemi e un filo
d’Arianna che nessuno riesce più ad impugnare per uscire da un
labirinto che non è soltanto italiano.
Perché questa estrema
confusione ha raggiunto il culmine in Italia da un episodio così
microscopico? La ragione è evidente: quelle dimissioni hanno
sottolineato un fenomeno la cui diffusione è ormai dominante in tutto il
mondo ma soprattutto in Italia e non da ora ma da anni, anzi da
decenni, anzi da secoli. Corruzione e mafie. Corruzione e trasformismo.
Corruzione e rabbia sociale. Corruzione e potere.
Le dimissioni
della Guidi sono stati il fiammifero che ha fatto divampare l’incendio.
Non sarà facile spegnerlo e quando lo sarà, soltanto allora vedremo le
rovine che ha lasciato. In una fase in cui stiamo vivendo la crisi di
un’epoca, i problemi sono già numerosi ed estremamente complessi. Questo
incendio è un sovrappiù che aggiunge un peggio al peggio, una ferita ad
una ferita, una tempesta ad una tempesta, incertezza ad incertezza.
SICCHÉ
il primo tentativo è quello di capire il senso di quanto sta avvenendo e
districare i nodi di quel filo d’Arianna che ci porti a riveder le
stelle.
***
Il tema di quelle dimissioni riguarda il
giacimento petrolifero trovato a ridosso d’un piccolo paese della
Basilicata e investe il dibattito sulle trivellazioni che si effettuano
in alcune zone dell’Adriatico.
L’Italia ha bisogno di petrolio e
di gas e quando riesce a trovare nuovi giacimenti in casa propria ne
ricava un indubbio arricchimento, maggiori investimenti e maggiore
occupazione.
Tuttavia, nonostante questi aspetti positivi, ce ne
sono altri negativi di carattere ambientale: possibile inquinamento con
tutte le conseguenze che esso può arrecare. Abbiamo già visto gli
effetti di queste due facce della medaglia a proposito dell’Ilva di
Taranto. La zona è più o meno la stessa e lo scontro politico e sociale è
analogo, con valutazioni spesso divergenti tra governo, Regione,
magistratura, imprese pubbliche e private.
Era opportuno indire un
referendum? Ed era opportuno che, una volta indetto, il governo e il
partito che lo sostiene raccomandassero di votare scheda bianca o
astenersi dal voto? Personalmente ritengo di no. Si tratta d’una materia
molto complessa, risolvibile soltanto con un compromesso che consenta
l’estrazione della materia prima e tutte le prevenzioni necessarie a
tutela delle persone. Il referendum non risolve il problema,
l’astensione rischia di dare la vittoria all’una o all’altra tesi per
qualche voto di differenza purché sia raggiunto il quorum del 50 più uno
per cento degli aventi diritto.
Il ricorso al referendum
abrogativo ha aggiunto dunque un rebus al rebus. Speriamo in
un’astensione di massa che annulli l’esito referendario e lasci lo
spazio per il compromesso.
Il caso Guidi sembra aver aperto un
caso Boschi, ma non è così: l’emendamento in discussione era pienamente
accettabile e la Boschi non aveva ragione alcuna per respingerlo. Altra
cosa sarà l’atteggiamento della ministra delle Riforme qualora suo padre
sia rinviato a giudizio per il caso della Banca Etruria. Attendiamo che
la Procura di Arezzo e il gip diano una risposta, dopodiché, allora sì,
la posizione della Boschi diventerebbe insostenibile.
Il tema
della democrazia è stato più volte riproposto da quando Renzi ha preso
il potere nel 2013 come segretario del Pd prima e di presidente del
Consiglio poi. Da allora Renzi comanda da solo con il suo cerchio magico
composto da suoi più fedeli collaboratori.
Ho più volte criticato
questa tendenza autoritaria, connessa anche ad una riforma elettorale
maggioritaria e ad una riforma costituzionale di trasformazione-
abolizione del Senato.
Fermo restando — per quanto mi riguarda —
la più netta contrarietà a quelle due riforme (elettorale e
costituzionale) ho invece rivisto la mia contrarietà al comando
solitario. L’ho rivista per due ragioni: la prima riguarda l’estrema
complessità dei problemi che oggi ogni governo deve fronteggiare nel
proprio Paese, in Europa e nel mondo. La seconda sta nella constatazione
che una società globale complica ancor più la complessità dei problemi e
la maggiore rapidità necessaria per risolverli.
Ma c’è una terza
ragione: in tutto l’Occidente democratico esiste un Capo che comanda da
solo: il cancelliere in Germania, il premier in Gran Bretagna, il
presidente della Repubblica in Francia, il presidente degli Stati Uniti
d’America. Solo per ricordare gli esempi di maggiore importanza.
Questi
esempi non configurano dittature: esistono contropoteri adeguati: i
Parlamenti, le Corti costituzionali, la Magistratura. Questi poteri ci
sono e vanno comunque rafforzati. Entro questi limiti l’esistenza di un
capo dell’Esecutivo che sia al timone non desta preoccupazioni.
Ho
anche avuto modo di constatare che Renzi, dopo molte incertezze in
proposito, ha scelto la via di sostenere in Europa la necessità di un
unico ministro delle Finanze dell’Eurozona, con i poteri di pertinenza
di quella nuova istituzione più volte richiesta anche da Mario Draghi.
Più
di recente, dopo i gravissimi episodi di terrorismo soprattutto in
Francia ed in Belgio ma non soltanto, abbiamo sostenuto su queste pagine
la proposta di un ministro dell’Interno europeo e di una polizia
federale europea sul modello dell’Fbi americano. A questa proposta Renzi
non ha ancora risposto. Gli rinnovo quindi la domanda perché il tema
purtroppo è di stringente attualità e l’Italia, Paese fondatore
dell’Unione europea, ha tutti i titoli per sostenerlo e dare battaglia a
chi sarà contrario.
Coloro che vedono la difficoltà del consenso
per realizzare i vari passi del percorso che dovrebbe portarci agli
Stati Uniti d’Europa, non dimentichino la definizione tra tempo breve e
sguardo lungo che fu di Altiero Spinelli. Tanto prima Renzi si schiererà
tanto meglio sarà.
C’è un altro tema che mi sono posto: a chi somiglia veramente Renzi?
Non
sono certo il primo a porre questa domanda. Molti hanno scritto che
somiglia a Berlusconi, altri addirittura a Craxi. Anch’io ho colto
alcuni tratti di somiglianza a Berlusconi e qualcuno anche con Craxi. Ma
il vero personaggio cui somiglia molto credo che Renzi non lo sappia:
si chiama Giovanni Giolitti.
Mi direte che è un paragone di troppo
alto livello e certamente è così, ma per alcuni aspetti fondamentali
queste due figure che distano di quasi due secoli tra loro si comportano
in modi analoghi.
Giolitti nacque nel 1842 e morì a ottantasei
anni nel 1928. Dopo un lungo tirocinio nel ministero delle Finanze entrò
decisamente nell’agone politico nel 1892. Da allora fu uno dei maggiori
esponenti della politica italiana pur senza mai far parte di un
partito. La sua posizione era ispirata genericamente ad un liberalismo
progressista e la maggioranza di cui dispose alla Camera fu quasi sempre
molto elevata. Per mantenerla tale cambiò spesso le sue alleanze.
Guardò contemporaneamente al capitalismo industriale e alle classi
lavoratrici, favorendo incentivi alle imprese e decenti livelli ai
salari. Cercò di ottenere l’appoggio dei socialisti riformisti in
genere, di Turati in particolare. Nel Mezzogiorno appoggiò clientele e
proprietari terrieri guadagnandosi l’insulto politico di Salvemini che
chiamò il suo governo “ministero della malavita” ed “ascari” i suoi
sostenitori meridionali.
Quando il Partito socialista e le
organizzazioni sindacali operaie sentirono sempre più un orientamento di
sinistra, soreliano, massimalista e rivoluzionario, Giolitti si alleò
con il primo gruppo di cattolici democratici gestito da Gentiloni (avo
dell’attuale nostro ministro degli Esteri).
Quando gli operai
della Fiat occuparono la fabbrica a Torino, tentò e riuscì a trovare un
compromesso tra le due parti. Fu contrario all’entrata in guerra
dell’Italia e neutralista, lasciò ovviamente il governo alla destra
italiana ma lo riprese nel 1920. Fece sgombrare D’Annunzio da Fiume ma
tollerò le violenze degli squadristi fascisti sperando di poterli
assorbire gradualmente nella sua maggioranza politica. A questo fine
favorì l’ingresso alla Camera nella sua maggioranza dei trenta deputati
fascisti nel 1921. Ma si ritirò definitivamente dalla politica dopo la
marcia su Roma e la nascita del Regime.
In conclusione un partito
giolittiano fu un vero e proprio partito della Nazione, che oscillava
tra una destra e una sinistra moderate, con ancoraggio sostanzialmente
centrista e un Capo unico che era lui.
Il giolittismo e il renzismo. Il primo al livello dieci, il secondo al livello cinque. Ma la vera analogia è quella del Paese.
Il
nostro è un Paese percorso da un fiume sotterraneo, sempre latente e
spesso emergente dove domina una corrente su tutte le altre: purché ci
sia libertà privata si accetta la dipendenza pubblica. E quindi
corruzione diffusa, clientele diffuse, interessi particolari diffusi.
Scarsi ideali, scarsi valori, fortemente sentiti ma da piccole
minoranze.
Il Manzoni questa situazione la descrisse così: «Con
quel volto sfidato e dimesso / Con quel guardo atterrato ed incerto /
Con che stassi un mendico sofferto / Per mercede sul suolo stranier /
Star doveva in sua terra il Lombardo / L’altrui voglia era legge per lui
/ Il suo fato un segreto d’altrui / La sua parte servire e tacer».
Lui
sperava di farne un popolo sovrano e in parte quel popolo sovrano è
nato. Non è più servo, è libero, tutela e lotta per i propri interessi,
ma l’interesse generale lo vede assai poco e da lontano. Lo lascia ad
altri, a chi comanda per tutti.
Il problema è sapere se chi
comanda tutelerà l’interesse generale o il proprio potere. Questo, alla
fine, sarà solo la storia a dirlo.