La Stampa 3.4.16
L’immagine in bilico del partito che doveva cambiare il Paese
di Marcello Sorgi
Anche
se non porterà, certo, alla caduta del governo, o alle dimissioni della
ministra Maria Elena Boschi dopo quelle della sua collega Federica
Guidi, né servirà a resuscitare attenzione sul referendum-trivelle del
prossimo 17 aprile, per non farlo fallire, lo scandalo petrolifero della
Basilicata dovrebbe egualmente dare a Renzi uno spunto per riflettere.
Specie
in un momento in cui sulla sua strada si affaccia la parola
«logoramento» e il premier per la prima volta appare sulla difensiva, di
fronte all’accerchiamento delle opposizioni.
Basta leggere con
una certa attenzione le carte di Potenza e tentare di coglierne
l’essenza, al di là dei singoli episodi, delle responsabilità personali e
dei comportamenti «inopportuni», come quello posto in essere da «colui
che a tutti gli effetti considero mio marito»: così, forse anche per
prenderne tardivamente le distanze, l’ex ministra Guidi ha definito il
suo compagno, che faceva il lobbista della Total spendendo il suo nome, e
mettendola in condizione di perdere il posto.
Teniamo pure conto
che i documenti giudiziari resi pubblici provengono dalla pubblica
accusa, e dovranno necessariamente passare al vaglio della magistratura
giudicante. Ma il punto non sono le valutazioni, talvolta personali e
perfino esagerate, che emergono dal lavoro dei magistrati. Piuttosto è
la storia: insomma cosa succede in una piccola regione del Sud, un tempo
feudo democristiano del padre costituente e pluriministro don Emilio
Colombo, quando all’orizzonte si affaccia l’affare dell’estrazione del
petrolio. Un piano di sviluppo che dovrebbe contribuire, non solo a
rendere il Paese meno dipendente dal fluttuante mercato internazionale
dell’«oro nero», ma a modernizzare e a far progredire un’area ancora
vittima dell’eterno sottosviluppo meridionale - creando sviluppo, lavoro
e stimolando sviluppo tecnologico e occasioni di ricerca, finalmente un
modo di impiegare i fondi europei che non sappiamo spendere - si
trasforma invece in una sorta di guerra civile fredda tra le correnti
del Pd. Una serie interminabile di conti da aprire e da saldare,
promesse e minacce, brogli e imbrogli, in cui ruotano, come in una
giostra impazzita, sindaci e assessori, presidenti ed ex presidenti,
vigili urbani e forze dell’ordine, e in cui alla fine la parola più
detta, ripetuta e gridata nei telefonini di servizio, pagati con denaro
pubblico e usati a sbafo, è: «Soldi, soldi, soldi!».
Si era detto
che dopo le rivelazioni dell’inchiesta su «Mafia capitale» sarebbe stato
impossibile trovare qualcosa di simile, o di peggio, di quanto accaduto
a Roma. Ma provate a leggere quel che è successo tra il governatore
renziano della Basilicata Marcello Pittella e il sottosegretario, ed ex
presidente della Basilicata, Vito De Filippo, poi dimessosi per un altro
scandalo, quello dei rimborsi elettorali per cui la Corte dei conti lo
ha di recente condannato a pagare 2641 euro in contanti, e chissà come
promosso al governo. De Filippo diceva quel che poteva al telefono e per
il resto mandava in giro suoi fidatissimi messaggeri a parlare,
avvertire e chiedere favori assai speciali. Provate ancora a vedere come
erano organizzate le primarie del Pd dalla sindaca Rosaria Vicino di
Cerleto Porticara, un po’ più di duemila cittadini che già si sentono
ricchi perché nel loro territorio rientra il famigerato impianto di
Tempa Rossa al centro dell’inchiesta. La Vicino girava in lungo e in
largo, scarrozzata da un vigile urbano su un’auto con la sirena, per far
campagna elettorale contro il governatore del suo partito e della sua
regione.
Si dirà che Renzi e la Boschi non erano al corrente,
altrimenti, prima di far passare l’emendamento voluto dal
compagno/marito della Guidi, e soprattutto prima di tornare a difenderlo
dopo le dimissioni della ministra, ci avrebbero pensato un po’ su.
D’altra parte, è vero che l’inchiesta è cominciata quasi tre anni fa, ma
non è detto che il premier e la ministra siano stati avvertiti dalla
Guidi, che ha confessato di aver saputo quasi subito che il suo
congiunto si era messo nei guai, e anche per questo s’è dimessa, né da
Pittella, che ha un fratello capogruppo al Parlamento europeo che aveva
partecipato alle primarie nazionali, né da De Filippo, che s’è beccato
il posto da sottosegretario, ha pagato o pagherà la multa da 2641 euro, e
naturalmente - giustamente, dal suo punto di vista, direbbero i suoi
alleati lucani - se ne sta zitto.
Insomma, facciamo che Renzi
fosse ignaro di quanto stava accadendo in Basilicata all’ombra del piano
petrolifero, o che gli avessero detto solo che c’era qualche piccola
scocciatura per iniziativa di magistrati politicizzati. Se anche fosse
andata così - e non c’è ragione di dubitarne -, adesso per il presidente
del Consiglio è venuto il momento di aprire gli occhi. Davanti a quel
che è successo, infatti, non basta far dimettere la Guidi. Non basta
sfogarsi, come fa di tanto in tanto nella stretta cerchia dei suoi
collaboratori, dicendo che il Pd in periferia gli fa schifo e non ci si
riconosce. Il partito è quella cosa lì di cui s’intravede, in
Basilicata, solo la schiuma. È quello napoletano che compera i voti
delle primarie a un euro l’uno. È quello della suburra romana. E così
via, scendendo verso Sud o risalendo verso il Nord, anche se,
ovviamente, con lodevoli eccezioni che tuttavia non riescono a fermare
la tendenza, a cambiare la parola d’ordine - soldi, soldi, soldi! - e a
ripulire l’immagine, lordata dal malaffare, del Pd renziano che doveva
«cambiare verso» all’Italia.
Può darsi che lo scandalo
petrolifero, come tutti gli altri degli ultimi mesi, favorisca le
opposizioni. Ma Renzi sbaglierebbe a farsene un alibi, proprio lui che
politicamente era nato contro tutto questo. Per vincere di nuovo, in
fondo, a Renzi non rimane che tornare a essere Renzi.