Repubblica 30.4.16
In viaggio con papà sul Brennero senza muri
di Paolo Rumiz
BRENNERO
“Grüne
Karte”, chiedevano a mio padre. Dal finestrino della Giardinetta lui
mostrava la carta verde dell’assicurazione e la Grenzpolizei gli faceva
segno di passare.
Dal sedile posteriore (avevo dieci anni) vedevo
soltanto il cinturone di cuoio dell’agente e le ruvide braghe in lana
cotta verde marcio. Si consumava così, con un frettoloso controllo di
documenti, il passaggio al Brennerpass, alla fine degli anni Cinquanta.
Con un brivido quasi afrodisiaco, si andava oltre, a comprare speck
affumicato alla macelleria di Alois Flickinger, a Gries, un borgo di
trenta case con campanile aguzzo. E poi
Schüttelbrot, rhum, pane nero, mentine bianche. L’Austria per me aveva il profumo di quelle mentine.
Con
la stessa euforia, i “tedeschi” si calavano su Vipiteno (Sterzing) a
fare incetta di bambole, gondolette di legno e vino da osteria
nell’inverosimile bazar di Maria Bernmeister. Per loro l’Italia era
odore di ragù e finanzieri meridionali gesticolanti. Arrivavano in
sidecar o vecchi Maggiolino con gli occhi felici del nordico che entra
nel Paese dei limoni.
LA GUERRA era finita da non molto e uno su
dieci di loro aveva una gamba sola o portava altri segni di invalidità.
Gli attentati che nel nome della Heimat tiravano giù i tralicci del
Sudtirolo non disturbavano gli affari dei bottegai sui due lati del
passo. Per via dell’antiterrorismo, la frontiera era pattugliata
dall’esercito, ma per noi il passaggio era una festa.
Mio padre
era ufficiale dell’Esercito e nelle settimane di ferie — d’estate o in
inverno — soggiornava spesso con la famiglia negli alberghi militari,
sistemati, lì come a Tarvisio, in ex caserme austroungariche. A Colle
Isarco (Gossensass) fiumi di alpini uscivano con i muli in una scia di
escrementi e anche in vacanza i militari di carriera vivevano un clima
eccitante da Fortezza Bastiani. Certo, si andava a fare la spesa «di
là», ma egualmente quella presenza armata era vissuta come necessaria
per pattugliare il sacro spartiacque della Patria.
A pochi
sembrava importare che per secoli il Brennero non fosse mai stato
frontiera e che fino al novembre 1918 l’Austria avesse avuto il confine
sul Garda.
Brennero era il mio mondo e io lo vivevo inconsapevole
di tutto. Del dramma delle opzioni e dei treni di ebrei che meno di
quindici anni prima erano passati di lì diretti ad Auschwitz. Mia mamma
mi aveva conciato con braghe corte di cuoio alla tirolese e un cappello
da alpino verde scuro con penna di gallo e una quantità di stemmi
colorati acquistati sui passi, dalla Svizzera alle Giulie. Andavo in
gita al rifugio “Bicchiere” in fondo alla Val di Fleres, senza sapere
che quel nome era la ridicola traduzione di Becker Hütte, e ogni
domenica alle dieci aspettavo con ansia la banda degli Schützen ignaro
del messaggio identitario implicito in quei tamburi e delle mie stesse
radici (sono triestino) mitteleuropee.
I treni funzionavano meglio
di oggi che c’è l’Europa unita. Lo scalo ferroviario del Brennero era
un mondo. Locomotori esausti dopo la lunga salita da Fortezza.
L’incontro con i rocciosi macchinisti delle Österreichische
Bundesbahnen. Le case dei ferrovieri, personaggi mitici che mi portavano
a funghi e sapevano come sconfinare senza farsi beccare dalla polizia,
per mettere le mani sui porcini appena nati sotto il tappeto d’aghi
degli abeti austriaci.
Un muratore enorme di nome Andreas
Untertoller mi prendeva sulle ginocchia e mi parlava in un misto
affascinante di tedesco e italiano. Il Brennero era il luogo
dell’incontro e dello scambio.
Poi venne la stagione dei camion. I
tubi di scarico annerivano la neve da novembre a marzo. Certe volte la
fila cominciava a Mules, 25 chilometri prima. Il terrorismo era finito, a
Bolzano si era instaurata una tesa non-belligeranza fra italiani e
tirolesi, e io continuavo a sconfinare in allegria, stavolta con gli
sci, per montagne intatte, senza impianti. A furia di soggiorni
militari, avevo imparato ogni segreto delle valli. Le conoscevo meglio
dei finanzieri. Si saliva con le pelli di foca per scendere a Obergurgl o
raggiungere la Nürnberger Hütte in Stubaital. Chissà quante volte sarò
passato sopra la mummia di Ötzi, padre di tutti i contrabbandieri,
ancora sepolta nella neve. Imparai il tedesco in ospedale, a Vipiteno,
dopo essermi rotto una gamba in un canalone. Sempre lì, sotto il
Brennero.
La stagione dei nuovi muri era ancora lontana. L’Europa
viveva la sua primavera, il confine non poteva che aprirsi di più, il
Brennero era diventato una formalità. Nel luglio del 1989 sul treno per
Innsbruck incontrai un viennese di nome Jozsef Barna, nato in Ungheria,
dalla quale era scappato dopo la repressione sovietica del 1956.
Era
un’altra storia di frontiera. Mi raccontò la sua fuga, la sua vita di
immigrato che ce la fa. Guardò gli abeti in corsa fuori dal finestrino e
disse: «La patria è quella che ti nutre, e io ho considerato subito
l’Austria la mia nuova patria. Sono diventato austriaco. I nuovi
immigrati non sono più così. Restano estranei». Pochi giorni prima la
cortina di ferro era stata smantellata dai soldati ungheresi sulla
stessa frontiera che lui aveva attraversato rischiando la pelle. Eppure
il signor Barna era inquieto.
Con la guerra dei Balcani la
macchina delle fughe si rimise in moto, e per il Brennerpass
cominciarono a transitare bosniaci, kosovari, serbi. Molti si erano
fermati in Italia, ma il sogno della maggioranza era il mondo tedesco.
L’Austria fece il suo dovere, assorbì anche i ceceni in fuga dalla
repressione di Putin. Per i nuovo arrivati era una pacchia. Assistenza
statale, 2mila euro per le famiglie con tre figli, appartamento
sovvenzionato. Lo slogan del sindaco di Vienna era « Humanität und
Ordung » ,
umanità e ordine.
Ma qualcosa nel meccanismo
cominciava a incepparsi. La piccola Austria entrava in Schengen ma
rischiava di non reggere all’urto. E l’inquietudine si trasformava in
voti per i populisti di Jörg Haider.
Oggi il sistema scolastico di
mezza Austria è collassato. Il 40 per cento dei bambini, immigrati o
profughi, parla un tedesco che sarebbe inascoltabile al vecchio Jozsef. I
nuovi arrivati sono osteggiati dagli immigrati di vecchia data, che
spesso votano populista. Certe comunità, come i 30mila ceceni della
Capitale, sono impossibili da integrare. Molti di essi vanno a
combattere in Siria godendo dell’aiuto finanziario dello Stato
austriaco. In alcuni quartieri si parla tutto meno che tedesco.
Circolano bande divise per etnie; ceceni e afghani si affrontano col
coltello. Il numero delle donne velate aumenta. Una femmina europea sola
in certi quartieri ha problemi a entrare in un bar.
Dopo aver
passato centinaia di volte questa frontiera, scusate se non me la sento
di accusare l’Austria di troppa chiusura. Se Vienna ha sbagliato, è per
troppa apertura. E noi Italiani — bravi a salvar vite ma meno bravi a
integrare — dovremmo avere l’onestà di dire che questa grande fuga verso
il Nord ci fa anche un po’ di comodo.
Povero vecchio Brennero,
non ti riconosco più. Troppa pressione. Ormai sono due anni che, quando
prendo il mio treno transalpino per Monaco, vedo salire a bordo la
polizia austriaca già a Rovereto, insieme a quella italiana. Questo già
prima del clamoroso gesto di benvenuto di Angela Merkel nei confronti
dei siriani.
Oggi, questa nuova barriera che nella primavera del
2016 taglia non solo l’Europa ma lo stesso Tirolo in due parti, fa assai
più male del vecchio confine con la sbarra bianco-rossa. Oggi che sul
confine ci somigliamo più di prima, oggi che dalle due parti governano
lo stesso Globale, lo stesso spaesamento, le stesse tempeste finanziarie
e migratorie, proprio oggi — in Austria come in Italia — sento
diffondersi la pericolosa illusione che «chiudersi è meglio», alla
maniera balcanica. E allora sento che c’era forse più Europa al tempo
dei passaporti e della Grüne Karte.