sabato 2 aprile 2016

Repubblica 2.4.16
Turchia
La battaglia di Can per la democrazia tiene in scacco Erdogan
Il processo al direttore di Cumhuriyet ha attirato l’attenzione mondiale sui diritti violati da Ankara
di Bernardo Valli

ISTANBUL LA vera requisitoria l’ha pronunciata l’imputato, Can Dundar, il direttore di
Cumhuriyet. Più che difendersi dalle pesanti imputazioni elencate dal procuratore, quel pacato, ironico collega con gli occhiali sottili, dalla montatura metallica, e con il pizzo color pepe, ha accusato il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, di non rispettare le regole democratiche, alle quali si richiama, di violare la libertà di stampa e i più elementari diritti umani tenendo in prigione decine di giornalisti e appropriandosi di quotidiani dell’opposizione con vari espedienti fiscali. Non ho ascoltato di persona le severe e audaci parole di Can Dundar. L’udienza si svolgeva a porte chiuse ma il suo discorso arrivava a brandelli nei corridoi tramite i difensori. E si direbbe che è rimbalzato ben al di là del Bosforo, producendo un effetto imprevisto. Dundar, e il suo collega Erdem Gul, capo della redazione di Ankara, sono usciti liberi dal Palazzo di giustizia, nonostante si prevedesse il loro arresto, chiesto a gran voce dal presidente della Repubblica, costituitosi parte civile, al fine di annullare la decisione della Corte costituzionale che ne aveva ordinato la scarcerazione. Non è stata pronunciata un’assoluzione. Il processo riprenderà il 28 aprile. Ma l’interesse internazionale che ha suscitato, l’ampio dibattito sulla libertà di stampa in Turchia che ha provocato, hanno trasformato quella che era una delle solite rivalse di Erdogan contro i giornalisti indisciplinati in una sua personale bruciante sconfitta. Un’altra dopo quella del 28 marzo, quando c’è stata la prima udienza. Allora la presenza in aula di numerosi diplomatici europei (l’ambasciatore tedesco e i consoli generali di Francia, Gran Bretagna, Italia e altri paesi dell’Unione) aveva sorpreso e indignato Erdogan, che l’aveva definita un’intrusione negli affari interni del suo paese. L’azione simultanea di una decina di deputati dell’opposizione schieratisi a difesa degli imputati per evitare il loro arresto, aveva impedito che il processo si svolgesse a porte chiuse.
Ieri c’è stato un preludio americano alla seconda udienza a porte chiuse di Istanbul. Erdogan si trovava a Washington per il vertice sul nucleare e tutto lascia immaginare che il difficile incontro con Obama, mentre si moltiplicavano le accuse al presidente turco per il suo accanimento contro la stampa, sia stato decisivo per quel che è accaduto più tardi nell’aula del tribunale in cui venivano giudicati Dundar e Gul. Obama aveva concesso a Erdogan soltanto qualche minuto, per una conversazione “informale”, in piedi, tra un impegno e l’altro. E invece poi l’incontro è durato cinquanta minuti, e si è concluso con una generica dichiarazione sul terrorismo. L’ampiezza delle proteste internazionali per il processo di Istanbul non era certo sfuggita, né aveva lasciato insensibile, il presidente americano. Il quale non avrebbe perduto l’occasione per richiamare alla ragione l’irrequieto ma indispensabile alleato nel Medio Oriente terremotato. Ed Erdogan non poteva far arrestare i due giornalisti subito dopo l’incontro con Obama. La sua guardia del corpo non ha certo raccolto grandi simpatie quando ha manganellato, senza risparmiare un cronista americano, i manifestati procurdi che si raccoglievano per protestare nei luoghi in cui era segnalata la sua presenza. Erdogan ha pubblicamente difeso le sue posizioni. Alla Cnn ha dichiarato il suo rispetto per la libertà di stampa e ha sostenuto che i giornalisti imprigionati in patria non lo sono per reati che la riguardano. Anche l’Unione europea sta prospettando l’invio di una missione in Turchia per studiare la situazione dei giornali. I legami tra Ankara e Bruxelles sono più stretti, più vincolanti, da quando è stato concluso l’accordo del 18 marzo sui migranti. Una notizia sconcertante solleva tuttavia dei dubbi sulla volontà turca di rispettare quel contratto. Amnesty International ha fatto sapere che dai campi in cui sono raccolti gran parte dei tre milioni di profughi in Turchia almeno una decina vengono ogni giorno costretti a ritornare nelle zone in guerra appena abbandonate. Una preoccupazione espressa anche dall’Alto commissariato per i profughi delle Nazioni Unite. Se queste informazioni fossero confermate si tratterebbe di un’infrazione gravissima alle regole internazionali. La credibilità della Turchia come “paese terzo sicuro” crollerebbe. E l’intesa tra l’Unione e il governo di Ankara potrebbe essere rimessa in discussione.
La giornata che doveva essere quella della punizione inflitta ai giornalisti indisciplinati si è conclusa infelicemente per il presidente turco. Ritorno nell’aula del Palazzo di giustizia dove con una procedura forzata gli imputati rischiavano pene pesanti, decenni di carcere o addirittura l’ergastolo. Erano accusati di avere pubblicato nel maggio dello scorso anno, con l’appoggio di un video, il passaggio di camion carichi di armi alla frontiera siriana, destinati ai movimenti jihadisti. Il trasporto avveniva, nel 2014, sotto il controllo dei servizi segreti turchi, i quali dissero poi che i destinatari erano gruppi turcomanni, nemici del regime di Damasco ma anche di Daesh, lo Stato islamico. Il guaio è che i turcomanni avrebbero poi fatto sapere che loro non avevano ricevuto nulla. Ma negli atti d’accusa, in cui si parla di spionaggio e di complicità in un tentativo di colpo di Stato, non si entra in quei dettagli tutt’altro che trascurabili. Nella sua requisitoria il procuratore ha puntato sui principali capi di imputazione, imitato dalla parte civile (che rappresentava il presidente della Repubblica e i servizi segreti), rivelando tuttavia una inattesa esitazione nel pronunciarsi sullo status degli accusati, nell’attesa della sentenza. Dopo 92 giorni di detenzione i due giornalisti sono stati liberati dalla Corte costituzionale, che ha ritenuto inutile il carcere per un reato di stampa. E che quindi non riteneva valide le altre ben più pesanti imputazioni. Il presidente in persona ha definito scorretta la decisione della corte suprema e si è costituito appunto parte civile con l’intenzione di rimandare in prigione Dundar e il suo collega Gul. Ma ieri il procuratore si è ben guardato dal chiedere il loro arresto nonostante le pesanti accuse formulate nella requisitoria. Il colloquio con Obama avvenuto poche ore prima aveva cambiato la tattica giudiziaria. Quasi cinquecento avvocati hanno chiesto con insistenza di assistere al processo. I giudici hanno ammesso quelli che l’aula poteva contenere. Abbastanza per rendere impermeabili le porte chiuse.
In realtà il processo al direttore e al redattore capo di Cumhuriyet, quotidiano laico d’opposizione, si è trasformato in un grande processo internazionale al regime di Erdogan. La prima udienza del 28 marzo ha dato una dimensione inattesa all’avvenimento. La ferma risposta a catena dei governi accusati da Erdogan di intromettersi negli affari interni turchi, con la presenza dei diplomatici in aula, ha dimostrato la decisione di proseguire l’azione in favore della libertà di stampa nel paese alleato. Gli europei hanno risposto in coro che i loro rappresentanti avevano il pieno diritto di entrare nelle aule dei tribunali. E della loro posizione è arrivata notizia fino alla Casa Bianca.