La Stampa 2.4.16
Il Cairo mente anche all’America sulla morte del ricercatore italiano
Il ministro Shoukry ha raccontato a Kerry che il giovane è rimasto invischiato in una gang e ha fatto sesso sadomaso
di Paolo Mastrolilli
L’Egitto
sta raccontando versioni sempre meno credibili dell’omicidio di Giulio
Regeni, e non solo ai diplomatici italiani. L’unica ragione per cui
continua ad essere tollerato è il rischio che il Paese imploda,
provocando una crisi che trascinerebbe nel baratro l’intera regione.
Questo pone un serio dilemma anche al governo di Roma, che deve decidere
se usare i giacimenti di gas appena scoperti dall’Eni come una leva per
risolvere questo caso.
A margine del summit nucleare di Washington, il
ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha incontrato il segretario
di Stato Kerry, che ha sollevato il problema di Regeni. Finché queste
cose le fate ai vostri cittadini - è stato il ragionamento - non ci
piace, ma non possiamo interferire più di tanto: se però cominciate a
colpire gli stranieri, il discorso cambia. La risposta di Shoukry è
stata quasi imbarazzante. L’ultima versione del Cairo è che Regeni si
era immischiato in una gang criminale, e aveva partecipato anche a
sedute di sesso sadomaso. I membri di questa gang lo avrebbero torturato
e poi ucciso. Le forze di sicurezza egiziane hanno scoperto i
colpevoli, ma quando sono andate a prenderli è scoppiato un conflitto a
fuoco in cui sono morti tutti. Quindi non ci sono più testimoni oculari
diretti, in grado di raccontare cosa sia successo a Giulio.
Queste
versioni sarebbero ridicole, se dietro non ci fosse una tragedia. Il
problema però è molto ampio, e riguarda in generale la stabilità di un
Paese di 90 milioni di abitanti, che è sempre stato la chiave della
stabilità in Medio Oriente, ma è privo delle risorse economiche
necessarie a restare in piedi. Una versione più attendibile dei fatti, e
ancora più preoccupante, è che gli apparati di sicurezza che tengono in
piedi l’Egitto sono spaccati: da una parte c’è il gruppo del presidente
al Sisi, sostenuto dal ministero dell’Interno, che era favorevole alle
riforme economiche e a un maggior rispetto dei diritti umani; dall’altra
una fazione più estremista, sempre laica, che invece vuole bloccare
tutto usando la forza. Questa disputa interna è la scusa che il gruppo
di al Sisi sta usando per rifiutare qualunque progresso sul piano delle
riforme, e il sospetto è che Regeni sia stato ucciso dall’altra fazione,
proprio per mettere in difficoltà il governo e favorirne la caduta.
Giulio, secondo gli egiziani, si era esposto frequentando ambienti che
doveva evitare. Nei giorni precedenti alla sua morte aveva chiesto un
incontro all’ambasciata italiana al Cairo, che però non era avvenuto.
Questo forse ha contribuito a convincere i suoi killer che era
vulnerabile e poteva essere aggredito. L’Egitto è problematico anche sul
fronte della lotta al terrorismo. Chiede aiuti per combattere al Qaeda e
l’espansione dell’Isis nella Penisola del Sinai, ma non consente poi
nemmeno l’accesso agli alleati da cui bussa. In Libia, appoggiando
Tripoli e spingendo il generale Haftar a cercare una soluzione militare
alla crisi nazionale, ha complicato la mediazione dell’Onu che tutta la
comunità internazionale invece sosteneva.
Per l’Italia ora tutto questo
pone un serio dilemma strategico. I giacimenti di gas che l’Eni ha
scoperto sarebbero molto importanti per la sostenibilità dell’economia
egiziana, ma sono anche una leva che Roma potrebbe usare per spingere il
Cairo a chiarire il caso Regeni. Col rischio, però, di favorire lo
sgretolamento del Paese.