giovedì 28 aprile 2016

Repubblica 28.4.16
Ma le emozioni che ci fanno unici resteranno un mistero
di Stefano Bartezzaghi
Come studiare il cervello, e il modo in cui comprende le parole e le storie? Non è affatto detto che la domanda sia ben posta: ma certo è necessario porsela almeno qualora si voglia trovare una possibile scorciatoia che colleghi ciò che fisicamente accade nel nostro corpo agli stimoli linguistici che riceve. La si può chiamare “scorciatoia”, perché in effetti taglia fuori tutto il regime del simbolico (per dirla con Jacques Lacan). Il presupposto è che quelli linguistici siano appunto stimoli, recepiti dal corpo (sia pure nella sua parte ritenuta più nobile): basterebbe trovare il punto di passaggio fra l’uno e gli altri per risolvere ogni questione. La psiche non è rilevata dagli strumenti diagnostici a disposizione e quindi viene espulsa dalla considerazione scientifica. Ma sarà proprio così? Ed è davvero il “cervello”, inteso come organo anatomico, a comprendere il linguaggio? Le componenti chimiche emanate da un fiore raggiungono i recettori del nostro olfatto e vengono poi categorizzate dalla nostra mente: con le macchine giuste si può capire quali zone del cervello reagiscano agli stimoli olfattivi. Cosa succeda poi quando uno ascolta la canzone che fa «Fiori rosa, fiori di pesco», o quando assaggia una «petite madeleine » con Proust o ancora, con Mallarmé, sente levarsi «l’absente de tout bouquets» proprio non si sa, o almeno non se ne trova segno univoco nei tracciati della risonanza magnetica.
Il punto di partenza della ricerca pubblicata da Nature è che il «sistema semantico» sia «collettivamente riconosciuto» come corrispondente a certe «regioni della corteccia cerebrale», che occorre determinare. Punto di partenza: dunque presupposto, se non pregiudizio. È questa un’idea come un’altra, che però pone nel nulla almeno un secolo di riflessioni e analisi sul linguaggio come associazione psichica di significanti e significati (Ferdinand de Saussure, primo Novecento), e interrelazione di potenzialità associative e capacità combinatorie: una facoltà appresa socialmente, mobile, flessibile. Anche tipicamente umana, perché l’uomo è una creatura che viene al mondo precocemente e prolunga la duttile fase del proprio apprendimento sino a farne della capacità di variare il proprio comportamento il suo migliore atout. La evoluzione dell’uomo (come specie e individuo) è appunto consegnata a questa strenua capacità di adattamento. L’ipotesi che si può fare, a partire dalle tesi linguistiche e semiotiche di Saussure, Hjelmslev, Jakobson, Eco e da quelle evoluzionistiche di uno Stephen Jay Gould, è che quanto la specie umana ha di formidabile è la capacità eclettica dei suoi apparati. Se uno dei maggiori misteri dell’antropologia è il linguaggio è proprio perché esso risiede in una sorta di “cloud”, raggiungibile da ogni organismo umano, appartenente a nessuno. Roger Caillois pensava che la differenza fra gli uomini e gli altri animali è che fra l’uomo e l’impulso che lo raggiunge esiste sempre “un’immagine interposta”. Il linguaggio sta lì, in quella zona intermedia. Difficile trovare scorciatoie. Detto questo, in bocca al lupo a chi le cerca.