Repubblica 28.4.16
Le parole che abbiamo in testa
Esiste
una mappa del linguaggio nascosta nel nostro cervello Gli scienziati
dell’università di Berkeley hanno scoperto che in punti precisi della
corteccia cerebrale trovano casa i vocaboli che adoperiamo per
comunicare. È il primo passo per costruire un dizionario dei pensieri?
Sette
volontari sono stati analizzati con risonanza magnetica mentre
ascoltavano la radio Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno
oggetto delle prossime ricerche
di Elena Dusi
Ogni
parola ha la sua casa, nel cervello. E da oggi il sistema semantico che
usiamo per parlare non è più un “hic sunt leones”. Un atlante del
linguaggio è stato disegnato dai neuroscienziati dell’università di
Berkeley. Un migliaio di termini hanno trovato la loro casa in un punto
preciso (in alcuni casi più di uno) della corteccia cerebrale, la parte
più esterna, evoluta del nostro organo del pensiero. La scoperta
conferma che tutto il cervello — e non, come voleva il vecchio mito,
solo l’emisfero sinistro — è coinvolto nel linguaggio. E dimostra che,
sia pur tra le differenze individuali, la “cartina stradale” delle
nostre parole resta uguale tra una persona e l’altra.
Gli
scienziati di Berkeley che oggi pubblicano il loro studio sulla
copertina di Nature sono partiti da una radio accesa. Il “Moth Radio
Hour” è un programma di successo americano in cui una persona sta in
piedi in una stanza con una luce puntata sul viso e un microfono davanti
alla bocca. Attorno ha un gruppo di estranei cui deve raccontare un
episodio della propria vita. Trasmessi via radio, i racconti sono stati
ascoltati a Berkeley da sette volontari, con gli occhi bendati, chiusi
per un paio d’ore in una risonanza magnetica.
Mentre i narratori
del “Moth Radio Hour” raccontavano, i volontari ascoltavano e la
risonanza magnetica registrava quali gruppi di neuroni della corteccia
cerebrale si “accendevano” a ogni parola. Tutta questa mole di dati è
finita in una mappa del cervello a tre dimensioni, con i termini dal
significato simile raggruppati in genere — ma con diverse eccezioni — in
una stessa area. Accanto alla tempia destra, per esempio, racchiusi in
uno spazio di pochi millimetri cubici, hanno la loro dimora pa-che role
come “moglie”, “madre”, “incinta”, “famiglia”. «A volte — scrivono i
ricercatori — questo atlante diventa intricato. Non sempre a un termine
corrisponde una sola localizzazione». La parola “moglie”, infatti,
compare anche in un’altra area della corteccia, accanto a “casa” e ad
altri vocaboli relativi a luoghi. La voce inglese “top” si ritrova in
ben tre punti: fra “vestiti” e altri lemmi relativi all’aspetto fisico,
in un gruppo di parole che descrivono lo spazio e gli edifici e infine
tra i numeri e le unità di misura. Altri esempi sono raccontati in un
video disponibile su www. nature. com. L’atlante semantico del cervello,
in tutti i suoi dettagli e i suoi colori sgargianti può anche essere
percorso online sul sito http:// gallantlab. org/ huth2016.
Come
atlante sembrerebbe piuttosto caotico, ma il fatto che appaia molto
simile fra tutti i volontari studiati suggerisce che una logica debba
pur esserci. «Abbiamo trovato per esempio — spiega il coordinatore della
ricerca, il neuroscienziato di Berkeley Alexander Huth — che i termini
relativi ai numeri sono collocati vicino alla corteccia visiva, in
un’area deputata anche al ragionamento spaziale. E questo ha molto
senso».
Sarà forse prematuro oggi pensare a un dizionario in grado
di decodificare i pensieri. «Ma nel momento in cui abbiamo una carta
geografica delle nostre parole — spiega Stefano Cappa, professore di
neurologia all’Istituto universitario di studi superiori (Iuss) di Pavia
— possiamo ipotizzare di usarla per decodificare ciò che una persona
sta pensando». Leggendo quali punti del cervello si illuminano in un
determinato istante, un apparecchio simile alla risonanza magnetica
potrebbe associarlo al termine relativo, permettendoci di leggere nel
pensiero — come suggeriscono anche i ricercatori di Berkeley nel loro
studio — di quelle persone cui una malattia impedisce di parlare.
Non
è un caso che alla mappatura del cervello e delle connessioni fra i
suoi 100 miliardi di neuroni — qualcuno li paragona al numero di stelle —
siano dedicati due fra i più grandi programmi scientifici del momento:
lo Human Brain Project, avviato nel 2013 e finanziato dall’Unione
Europea con un miliardo di euro, e la Brain Initiative, annunciata
sempre nel 2013 dal presidente americano Barack Obama e finanziata
finora con svariate centinaia di milioni di dollari.
L’idea che
una facoltà così complessa e per molti versi indecifrabile come il
linguaggio possa essere racchiusa in una “cartina stradale” incontra
ovviamente anche molte perplessità. «Mappare il nostro dizionario è un
sogno che coltiviamo da tempo » spiega Andrea Moro, che allo Iuss
insegna linguistica generale. «Ma prima di cercare come è organizzato il
linguaggio nel cervello, bisogna capire come lo è nella mente». Se lo
studio di Berkeley ha mappato un migliaio di termini, perlopiù concreti,
«dove collocheremmo il verbo essere o una particella così complessa
come “se”?» si chiede Moro. «Prima dei neuroscienziati, devono essere i
linguisti a stilare una sorta di tavola periodica della facoltà del
parlare, che descriva quali sono gli elementi primitivi del linguaggio».
Paolo
Leonardi, che insegna filosofia del linguaggio all’università di
Bologna, trova molte domande rimaste senza risposta nello studio
americano: «Non si spiega ad esempio come le aree associate alle varie
parole siano coinvolte nella produzione linguistica. O come siano
collegate alle aree dove registriamo la percezione degli oggetti che
queste parole nominano». Per Alessandro Treves, fisico di formazione e
docente di “Basi neurali della conoscenza” alla Scuola internazionale
superiore di studi avanzati di Trieste, «l’informatica e l’uso di
algoritmi sempre più avanzati ci permettono di ottenere risultati così
raffinati. Ma dobbiamo pensare al linguaggio come a un concerto che
coinvolge varie aree del cervello. La corteccia va considerata come un
tutt’uno. Associare una parola a un punto isolato rischia di portarci
fuori strada».
Il fatto che tutti i volontari dello studio (fra
cui lo stesso Huth) abbiano mostrato di avere lo stesso “atlante del
linguaggio” sembrerebbe suggerire che nel nostro cervello esistono basi
innate per la parola. Ma per dimostrarlo bisognerebbe estendere
l’esperimento a persone di lingue o culture diverse, e soprattutto alla
sintassi.
«La partita fra chi appoggia la teoria della grammatica
universale di Noam Chomsky e chi propende per la tesi del linguaggio
come frutto di apprendimento si gioca infatti sulla sintassi, non sulla
semantica» spiega Treves.
Fonetica, sintassi e struttura narrativa
saranno i prossimi tasselli da studiare, annunciano oggi i ricercatori
di Berkeley. Il loro atlante è una prima rappresentazione di come il
cervello organizza il suo linguaggio. Altri esploratori adesso dovranno
occuparsi di tracciarne i dettagli.