Repubblica 28.4.16
Nell’incontro tra Trump e Salvini la nuova linea della Lega
Come il populismo transatlantico cancella il vecchio centrodestra
Berlusconi
era legato al Ppe nonostante i conflitti con Angela Merkel Ora la
battaglia per la leadership dipende dal risultato della Meloni a Roma
di Stefano Folli
IL
populismo transatlantico che Matteo Salvini sogna di costruire
abbracciando Donald Trump è qualcosa di più della “photo opportunity”
realizzata l’altro giorno a Filadelfia. È un progetto di cui si
cominciano a intravedere i contorni, molto più ambizioso di quanto
farebbe pensare quel 13-14 per cento di consensi a cui sembra inchiodata
la Lega.
Il capo del Carroccio è quasi riuscito a disarticolare
quel che resta di Forza Italia. Non tanto grazie alla sua abilità o al
suo rapporto con l’elettorato, quanto per la progressiva estinzione del
fenomeno Berlusconi. Ironie della sorte: Roma è il palcoscenico dove
tutto cominciò nel ‘93, all’epoca del duello fra Rutelli e Fini; e Roma è
oggi lo sfondo della disfatta annunciata. Disfatta che trascina con sé
il rapporto con l’Unione europea. Berlusconi bene o male si è mosso per
anni nel solco del Partito Popolare, almeno finché è stato il baricentro
del sistema politico. In realtà il pessimo rapporto con Angela Merkel
lasciava intendere come il “popolarismo” di Forza Italia e del suo
fondatore fosse di una pasta assai diversa rispetto al rapporto
privilegiato con il centro moderato tedesco che era tipico della Dc, da
De Gasperi in poi con poche eccezioni.
Ma su questo si può
discutere. In fondo, Berlusconi sapeva tenere a freno le sue pulsioni
populiste perché era consapevole di aver molto da perdere. Un approccio
pragmatico, sul filo del rasoio, che non lo abbandonò mai: nemmeno
quando era affascinato da Bush e da Tony Blair, due personaggi agli
antipodi della prudenza tedesca. Salvini è ovviamente tutta un’altra
storia. In condizioni normali il capo leghista sarebbe un segmento
radicale e localista di un centrodestra guidato da altri. Umberto Bossi
fu proprio questo rispetto al Berlusconi degli anni buoni: un alleato
rumoroso ma fedele, astuto abbastanza da versare molta acqua nel vino
della secessione.
Viceversa il giovane Salvini sta imponendo la
sua regola sulle macerie del mondo berlusconiano. A Milano ha lasciato
via libera a un manager certo non leghista come Parisi, facendo capire
di esserne il grande elettore dietro le quinte. A Roma gioca la partita
decisiva. Giorgia Meloni è la partner perfetta per segnalare l’epilogo
definitivo della stagione berlusconiana: nazional-populista come lui,
entrambi felici che l’estrema destra austriaca di Hofer conquisti le
istituzioni e costruisca muri al confine con l’Italia; entrambi pronti a
riconoscersi nel messaggio di Trump, l’uomo che magari non arriverà
alla Casa Bianca, ma che rappresenta una frattura storica, il segno di
cosa sta cambiando al di qua e al di là dell’Atlantico.
C’è solo
un problema, anzi due. Il primo è che Giorgia Meloni deve arrivare
almeno al ballottaggio con le sue forze. La rottura su Bertolaso e la
sfida al vecchio leader hanno un senso se la candidata dimostra di saper
camminare sulle sue gambe. Altrimenti sarebbero la malinconica
sconfitta di tutti e la consacrazione dei Cinque Stelle come il solo
movimento populista davvero diffuso nel territorio, sulla base di
percentuali notevoli. Né di sinistra come Podemos in Spagna, né di
destra come Marine Le Pen in Francia o Farage in Gran Bretagna: un
intreccio unico e peculiare capace di mescolare pulsioni trasversali e
di tradurle in voti.
QUI è il secondo problema di Salvini. Le
percentuali della Lega sono discrete, ma non indicano alcun trionfo
imminente. La leadership a destra per ora è una partita tutta politica. I
consensi invece restano una coperta alquanto corta, se si paragonano a
quelli che l’arcipelago Berlusconi-Bossi-Fini- centristi raccoglieva una
volta, prima della diaspora. Aver sostituito il populismo stile Trump o
Le Pen (l’ambivalenza non è chiara) all’idea di costruire in Italia un
saldo presidio del Partito Popolare europeo, per ora sconvolge i vecchi
assetti senza indicarne di nuovi. E ha buon gioco Pier Ferdinando
Casini, con l’esperienza del dc consumato, nel ricordare che Renzi è
oggi la barriera naturale contro i Salvini e i Grillo. Renzi non da
solo, ma affiancato da un centro moderato che riscopre se stesso e
riunisce tutte le fazioni, da Alfano allo spento Berlusconi.