Corriere 28.4.16
IL declino dei neoliberisti lascia spazio ai populismi
di Mauro Magatti
Alla
fine degli anni 80 la caduta del socialismo, segnata simbolicamente dal
crollo del Muro Berlino, decretò la fine delle ideologie, in pochi anni
spazzate via dalla vittoria internazionale del neoliberismo. Capace di
trasformare le spinte contro-sistemiche di un emergente individualismo
in benzina per una nuova stagione di crescita economica.
In quel
passaggio storico, i vecchi partiti conservatori lasciarono il posto a
un nuovo modo di pensare, icasticamente sintetizzato nella celebre
formula thatcheriana «la società non esiste». Nel mercato «liberato»,
era il singolo individuo l’unico e vero protagonista.
A qualche
decennio di distanza da quella svolta politica, il combinato disposto di
stagnazione economica e pressione migratoria mette in discussione gli
equilibri raggiunti dai Paesi avanzati, forgiando nuove visioni
politiche.
Soprattutto a destra è in atto una battaglia che probabilmente deciderà del nostro futuro.
È
infatti ormai chiaro che in Europa la destra avanza un po’ ovunque, con
un discorso duro e carico di risentimento che fa della chiusura agli
immigrati, associato alla difesa dell’identità nazionale, la leva
principale. Un modo per gridare che la politica europea, gestita da un
establishment che continua a essere lontanissimo dal sentire diffuso,
non è efficace.
Si tratta di un processo che va acquistando forma e
forza crescenti. E che, arrivati dove siamo, è troppo semplicistico
ricondurre ai populismi già da molti anni presenti nelle democrazie
europee.
In alcuni paesi, partiti che si rifanno a questo schema
sono già al governo. Ungheria e Polonia in testa. Ai quali potrebbe ora
aggiungersi l’Austria. Senza dimenticare i successi elettorali ottenuti
al primo turno delle elezioni amministrative da Marine Le Pen in
Francia.
È evidente che ci troviamo di fronte a una nuova proposta
politica che avanza la pretesa di succedere ai vecchi partiti di marca
neoliberista (con echi anche nella candidatura di Trump negli Stati
Uniti).
Fa eccezione, almeno per il momento, la Germania, dove la
Merkel riesce a mantenere stabile il principale paese dell’Unione. Ma
viene da chiedersi che cosa verrà dopo la cancelliera, che non può
essere eterna.
Last but not least, anche nel nostro paese la
contrapposizione tra le due destre è ormai evidente nello scontro tra
quel che resta di Forza Italia e il tandem Salvini-Meloni.
Ci sono
molte buone ragioni per ritenere che si debba evitare che questo fronte
costituisca il perno di una nuova stagione storico-politica. La
questione riguarda tutti i partiti, di destra e di sinistra. E si deve
ancora capire da quale fronte una risposta costruttiva possa arrivare.
Ma
in ogni caso il primo passo è riconoscere che, a differenza di quanto
accadde negli anni 80, il cuore del problema oggi è il legame sociale:
dopo decenni di individualismo spinto e di sganciamento tra economia e
società, la prolungata stagnazione economica fa sì che il livello di
insicurezza e incertezza sia ormai socialmente intollerabile. In una
recente pubblicazione, il Fondo monetario internazionale ha mostrato
che, dopo otto anni, solo Stati Uniti e Germania, tra i principali Paesi
occidentali, hanno pienamente recuperato il livello di reddito
precedente alla crisi. Con una velocità di aggiustamento che, se
confrontata con altre grandi crisi finanziarie del passato, risulta
particolarmente bassa. Senza tenere conto dei permanenti squilibri
esistenti nella distribuzione del reddito.
Come possono società
altamente individualizzate e impaurite sviluppare non dico un
atteggiamento solidaristico, ma almeno razionale nei confronti di un
fenomeno che suona così minaccioso come quello di migranti e rifugiati?
Specie
nei ceti popolari, dove il costo della crisi è stato ed è ancora oggi
molto salato, il risentimento sta raggiungendo livelli di guardia. E per
evitare che arrivi alle sue conseguenze più velenose, c’è bisogno di
una risposta politica chiara e realistica, capace di rielaborare
questioni rimosse da tempo. E cioè che tra interessi economici e domande
sociali occorre trovare un punto di compromesso reciprocamente
sostenibile; che l’idea di un astratto cosmopolitismo può forse attrarre
piccole élite sociali, ma non il popolo che ha bisogno di forme
culturali e istituzionali definite e condivise, tanto più in un mondo
molto turbolento; che in una situazione che si fa sempre più complessa è
necessario rinegoziare la relazione tra crescita personale e di
sistema. Una domanda molto diversa e per certi versi opposta a quella
degli anni 80, quando la questione era quella di liberare le energie
compresse da uno statalismo soffocante.
Come succede sempre in
queste fasi di cambiamento, vincerà chi, aggiornando per primo le
proprie mappe cognitive, diventerà capace di dare risposte concrete alle
mutate sfide storiche. Senza pensare di vivere in un’epoca che non c’è
più.