Repubblica 28.4.16
Il tradimento del profugo Enea
di Guido Crainz
HANNO
il significato di un simbolo le scelte dell’Austria sul Brennero, un
simbolo che fa inevitabilmente riaffiorare fantasmi del passato. E rende
ineludibili i nodi già emersi nei mesi scorsi assieme ai muri eretti in
molte forme da differenti Paesi.
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ASSIEME a
quei muri: la dolente e straziata popolazione dei profughi ha reso solo
evidenti questioni più profonde. Certo, sulle decisioni austriache
influiscono oggi ragioni e tensioni elettorali ma non è inevitabile che i
peggiori nazionalismi facciano vincere le elezioni (né che i
socialdemocratici inseguano gli avversari sul loro terreno nel vano
tentativo di non perderle): sul perché si è giunti a questo è dunque
necessario continuare a interrogarsi.
Non c’è dubbio, l’ipotesi di
chiudere il Brennero è una resa dell’Europa, è contro la storia e
contro il futuro: non c’è nulla da aggiungere a quel che hanno detto il
presidente Renzi e la presidente Boldrini. Quell’ipotesi tocca da vicino
il nostro vissuto, ci richiama alla mente il sofferto percorso con cui
abbiamo superato lacerazioni drammatiche: la generazione cresciuta negli
anni Cinquanta e Sessanta ha ancora memoria viva, ad esempio, delle
tensioni connesse al nodo del Sudtirolo, per non evocare più antichi
traumi e tragedie. Abbiamo memoria, anche, della stella polare che ci ha
aiutati a superare quelle lacerazioni ed è proprio quella stella
polare, l’Europa, ad essere oggi a rischio. Con questo ci stiamo
misurando. Poco tempo fa, su Repubblica, Giorgio Napolitano ha ricordato
al presidente austriaco le speranze del 1998, quando «da ministro
dell’Interno fui al Brennero con il mio omologo ministro austriaco per
rimuovere insieme la barriera al confine tra i nostri due Paesi». Non è
immaginabile che si torni indietro, ha concluso giustamente Napolitano,
ma è proprio l’inimmaginabile a fare paura. Molte altre barriere sono
cadute poi in tutta Europa nel dicembre del 2007, superando ferite
storiche: sembrava ancor più impossibile tornare indietro eppure sta
succedendo. Di questo si tratta e con questo dobbiamo misurarci, assieme
all’obbligo di dare al dramma dei profughi la risposta che i Paesi
civili sono tenuti a dare.
Toccandoci da vicino, dunque, le scelte
che riguardano il Brennero ci precludono definitivamente le rimozioni
in cui troppe volte abbiamo cercato rifugio. Destre aggressive e
nazionalismi xenofobi erano apparsi già prima di quel gioioso 2007:
dall’esplosione del movimento di Jean Marie Le Pen, nel 2002, al
diffondersi di movimenti non dissimili in diverse aree europee; dai
pronunciamenti referendari della Danimarca e della Svezia contro l’euro a
quello della Francia e dei Paesi Bassi contro la Costituzione europea.
Ben prima delle dilaganti esplosioni dell’ultimissimo periodo.
Sottovalutammo questi e altri segnali, e sottovalutammo quel che Carlo
Azeglio Ciampi aveva annotato nei suoi diari già molto prima, al momento
stesso del varo dell’euro: è necessario ora, scriveva, un rinnovamento
complessivo capace di investire anche la cultura, i costumi, gli stili
di vita. È stato inevitabile, aggiungeva allora Ezio Mauro, avviare
l’unificazione «attraverso l’unico comun denominatore oggi possibile,
quello della moneta » ma è ormai urgente «dare un contesto
istituzionale, culturale e politico a questa moneta. Perché rappresenti
l’Europa e non soltanto undici Paesi comandati da una banca». A questa
sfida siamo mancati: è mancata la politica e più ancora — è necessario
dirlo — è mancata la cultura: ad essa in primo luogo spettava costruire
ponti (lo aveva scritto da sempre Alex Langer), delineare orizzonti e
utopie comuni, ragioni di fratellanza e di comunità. Non è successo, o è
successo troppo, troppo poco. Non è responsabilità solo della politica
dunque se, lontana ormai la stagione delle speranze, i cittadini europei
vivono oggi in una Unione priva di strumenti istituzionali efficaci e
in un continente quasi sconosciuto. Ignari più di prima dei processi in
corso al suo interno, esposti alle pulsioni nazionaliste e al tempo
stesso incapaci di comprenderne le radici. E incapaci di dare risposte
civili ai «dannati della terra» che cercano rifugio in Europa e in
Italia. Quell’Italia che in fondo, ci ha ricordato un bel libro di Fabio
Finotti, ha il suo mito fondativo nel profugo Enea.