Repubblica 28.4.16
Due saggi raccontano come l’Occidente non solo ridisegnò la geografia delle terre tra Egitto e India, ma ne fece un’ideologia
Lawrence D’Arabia l’uomo che creò l’Oriente
di Giuseppe Catozzella
Per
Edward Said il modo dell’Occidente di rapportarsi al Medio Oriente ha
un nome preciso: “Orientalismo” (titolo del suo saggio del 1978). E
orientalismo è «l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al
fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente». Istituzioni che
implicano rapporti di forza economici, politici e militari. Ma occorrono
anche, per Said, “fattori
culturali”, vale a dire un «insieme di
nozioni sull’Oriente», non importa se veritiere o fittizie, che
consentano all’Occidente di esercitare «la propria influenza e il
proprio predominio » su quelle terre. Un discorso, comune e condiviso da
tutto l’Occidente, nell’accezione suggerita da Foucault
nell’Archeologia del sapere. Senza quel discorso, quei fattori
culturali, spiega Said, «risulta impossibile spiegare la disciplina
costante e sistematica con cui la cultura europea ha saputo trattare – e
persino creare – l’Oriente in campo politico, sociologico, militare,
ideologico, scientifico e immaginativo». L’idea che oggi abbiamo di
quelle terre, «sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee»
è, per Said, frutto di decenni di pratiche discorsive su «uno dei più
ricorrenti e radicati simboli del Diverso ».
Ma dove si forma
questo discorso, come oggi lo conosciamo? Un libro di Phillip Knightley e
Colin Simpson, da poco pubblicato, Le vite segrete di Lawrence d’Arabia
(Odoya, pagg. 362, euro 22), rintraccia quel momento nel primo periodo
in cui Thomas Edward Lawrence, a diciannove anni, si iscrisse a Oxford,
nel 1907. Lì conobbe David George Hogarth, suo mentore, confessore e
protettore, senza il quale «non è esagerato dire che non ci sarebbe
stato nessun Lawrence d’Arabia». Hogarth lo introdusse al circolo della
Round Table, un periodico che propugnava la Federazione (cioè l’unione
di tutti i bianchi dell’Impero) e l’Imperialismo. Sulle sue pagine si
legge del ruolo di «principale forza civilizzatrice dei paesi di lingua
inglese», e che l’imperialismo «dovrà diventare la fede riconosciuta di
tutta la nazione ».
È così che Lawrence, attraverso il suo
maestro, coltiva, come scrive lui stesso, l’idea di «formare una nuova
nazione di gente entusiasta della nostra libertà e desiderosa di entrare
a far parte del nostro Impero»: si riferisce al popolo arabo, a coloro
che stavano tra l’Egitto e l’India, i due grandi possedimenti della
Corona.
Un altro testo, recentemente pubblicato, ci viene in
aiuto. È Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente di Fabio
Amodeo e Mario José Cereghino (Feltrinelli, pagg. 208, euro 17), dove si
comprende come «all’inizio del Novecento la parola Medio Oriente non
esisteva. A usarla per primo fu nel 1902 Alfred Mahan sulla National
Review ». Non era infatti ancora sorta la necessità di identificare le
terre tra Egitto e India. Mahan era un ammiraglio, e per primo teorizzò
che «la Royal Navy dovesse proteggere le rotte tra il Canale di Suez, il
Mar Rosso, il Golfo Persico». Perché? C’era, certo, la doppia minaccia:
da nord, da parte «dello zar di tutte le Russie»; e da ovest, «la
crescente egemonia finanziaria e commerciale del Reich tedesco sulla
Turchia asiatica». Ma c’era anche altro. Verso la fine del 1908,
Lawrence presenta l’idea della sua tesi di laurea: la premessa è che i
crociati abbiano portato nel Medio Oriente quei princìpi di architettura
militare che in genere tutti gli esperti asseriscono venire dal Medio
Oriente. Così, impara l’arabo e parte per la Siria, che allora
comprendeva le attuali Israele, Giordania e Libano. Ma queste spedizioni
archeologiche erano finanziate da ministeri che con l’archeologia nulla
avevano a che vedere.
Ecco che Lawrence si trova in pieno dentro
il Grande Gioco, e nel 1914, Hogarth lo fa entrare nei servizi segreti
militari. Occorreva vincere la Prima guerra, e vincerla sia via mare,
sfruttando la geniale trovata dell’ammiraglio Fisher di alleggerire i
vascelli militari dal carbone, alimentandoli con motori a scoppio da
poco inventati, sia via terra «sfruttando gli arabi per scardinare la
Sublime Porta». Così Lawrence, il 10 giugno 1916, convince «lo sceriffo
della Mecca a innalzare il suo vessillo contro i turchi», e per farlo
promette loro la libertà e l’indipendenza, pur sapendo che una volta
vinta la guerra la politica imperiale britannica, che lui ha collaborato
a formulare, farà di quelle promesse lettera morta. Certo, scrive
Lawrence, «era meglio vincere e rinnegare la parola che perdere». E non
soltanto per questioni geografiche. I dispacci che giungevano alla
Corona parlavano infatti del «propellente del futuro, un idrocarburo
viscoso, i cui giacimenti si trovano tra la Persia e la Mesopotamia
(attuali Iran e Iraq): petrolio ». Energia del futuro capace di far
correre le nuove navi della Royal Navy. Nascono le grandi compagnie
petrolifere, dalla Turkish Petroleum, alla Shell, alla Deutsche Bank
Petroleum.
Gli arabi sconfiggono gli Ottomani, ma in cambio non
ottengono nulla. Al contrario, Inghilterra e Francia si dividono il
neonato Medio Oriente creando nazioni a tavolino nate per spartire le
royalties dei proventi dei pozzi, sulla base dell’accordo di
Sykes-Picot, senza tenere conto delle differenti etnie o confessioni:
«Sciiti con sunniti, curdi con armeni, alawiti con drusi». La
Mesopotamia (l’Iraq) e la Persia (Iran) agli inglesi, e così la
Palestina. Fu inventata la Giordania, sempre agli inglesi. La Siria e il
Libano ai francesi. La penisola arabica finì sotto il controllo
inglese.
Lawrence, di fronte al fatto compiuto e pentito, in quei
mesi avvertì: se non manteniamo la parola «il prezzo da pagare sarà
altissimo», si genererà un «desiderio di riscatto, rabbia e deviazioni
fondamentaliste». Rimase inascoltato.
“Se non manteniamo la parola con quei popoli genereremo rabbia e fanatismo”