il manifesto 28.4.16
Lo spazio sospeso del possibile e un alfabeto di idee a venire
Saggi.
«Che cos’è la filosofia» di Giorgio Agamben per Quodlibet. La voce e la
sua relazione con il linguaggio, il dicibile, l'esigenza, il proemio,
la musa. Sono i cinque elementi argomentati dal filosofo tra archeologia
dei concetti e teoresi
di Marco Pacioni
Secondo
un’antica tradizione, nessuna scienza può dire da sé in che cosa essa
consista. Rispondere a questa domanda è invece compito della filosofia –
l’unica disciplina che può dar conto di sé da sé. Nella misura in cui è
in grado di girare su stesso, quello della filosofia si presenta come
un discorso centrifugo che implica sempre altro. La dinamica del
pensiero somiglia a quella della grammatica per il linguaggio. Cioè al
gioco di tutti i presupposti di per sé insignificanti come ad esempio
fonemi, lettere, sillabe che messi insieme però formano parole le quali
permettono di costruire il senso della frase e dar luogo al soggetto del
discorso. Proprio percorrendone tale dinamica grammaticale, Giorgio
Agamben torna a chiedersi Che cos’è la filosofia? (Quodlibet, pp. 156,
euro 16) attraverso cinque argomenti: voce, esigenza, idea, proemio e
musica.
Sulla voce, Agamben riprende ricerche precedenti
approfondendo quello che aveva indagato come un Experimentum linguae in
quello che ora diventa un Experimentum vocis. A differenza di quanto
sostenuto da Derrida, per Agamben non la voce, ma la lettera che la
trascrive è ciò che domina e sbarra il pensiero. Compito della filosofia
è allora quello di tornare a indagare la voce quale punto di contatto e
al contempo cesura fra tutte le dicotomie che caratterizzano il
linguaggio e il vivente.
Per Agamben, il vivente umano non è
soltanto «animale politico», ma colui la cui politicità è attestata
anzitutto dal fatto di non aver mai rinunciato al linguaggio nel corso
della sua storia. In tal senso, il linguaggio non è essenzialmente
grammatica, ma è anzitutto antropogenesi politica. Per tal motivo,
assolvere il compito del pensiero dell’essere politico parlante richiede
la dimissione di ogni grammatica come base del sapere. Per Agamben,
occorre andare oltre la trascrizione nelle lettere (grammata) delle
affezioni dell’anima di Aristotele. E oltre anche le sempre più
stringenti riduzioni del linguaggio a codice senza pensieri. Per far ciò
bisogna rimettersi sulla via tracciata da Platone che riteneva
impossibile dividere la voce, il factum loquendi in qualsivoglia sistema
di unità e opposizioni. L’origine del linguaggio come inizio dell’umano
è una ricerca che parte sempre da dopo. In tal senso questa è sempre,
platonicamente, anche rammemorazione. Ed è altresì a causa di ciò che
trovare il principio dell’antropogenesi è anche sempre giungere dove già
siamo. Cercare nella lingua conduce a un vivente, a una voce umana, al
verso o gesto di un animale. Nessun alfabeto fonetico può da sé
insegnarci a pronunciare un segno se non c’è una voce a esso combinata
che, almeno la prima volta, ci mostra il collegamento proferendolo.
Ciò
vuol dire che tutte le cesure che caratterizzano il linguaggio sono in
realtà snodi da una lingua all’altra, passaggi da un vivente all’altro.
Senza questo presupposto comunitario, senza questo simultaneo snodarsi
di più modalità d’essere, nessuna lingua, codice e sistema sarebbero
possibili. Pensare tale presupposto, tale distinzione inseparabile dello
snodo è la vocazione della filosofia, la sua stessa voce, secondo
Agamben.
Quando dobbiamo scegliere possiamo condurci a forzare la
possibilità e trasformarla in dover-fare, in dover-essere. Nella
tradizione occidentale si è frequentemente identificato tutto l’essere
con il dovere attraverso la dottrina della necessità. Nel secondo
scritto qui raccolto, Agamben interviene proprio sulla necessità per
riportarla oltre il dover-essere a individuare invece nell’«esigenza» di
poter-essere la cosa del pensiero. Seguendo anche qui Platone (ma anche
il conatus di Spinoza), l’esigenza è illustrata da Agamben come la
possibilità della materia di diventare tutte le forme dell’essere. Per
Agamben la materia non è dunque un sostrato, una sorta di hardware del
software delle forme, ma la possibilità stessa che si diano forme.
Come
non esiste una materia che non sia già anche la possibilità di una
forma, che non sia qualcosa che abbia già un nome, così non esiste un
silenzio completamente separato e contrapposto al linguaggio. Non la
pretesa dell’indicibile che trasforma la possibilità di dire nel potere
(politico) della parola sovrana, ma il dicibile è, secondo Agamben, il
problema con il quale la filosofia deve sempre misurarsi. Il silenzio
risalta soltanto se esso segue il presupposto di una parola già detta e
di un’altra che seguirà. Questa intermediazione senza relazione tra un
detto precedente e successivo è il dicibile.
Per Agamben il
dicibile rappresenta la vera natura intermediaria dell’idea platonica.
Questa non si trova in nessun luogo separato e a lei sola deputato. Non è
un universale, sulla cui natura soprattutto la filosofia medievale si è
tanto interrogata. Piuttosto, l’idea mette in contatto e per ciò stesso
separa il lato semiotico e quello semantico del linguaggio, la materia e
la forma delle cose. Analogamente, essa è da un lato nome e dall’altro
numero. Per questo, secondo Agamben, di una matematica fuori dal
linguaggio, presunto fondamento diretto dell’ontologia come vorrebbe
Badiou, noi non sappiamo nulla.
Se il nominare dell’idea è il
presupposto del linguaggio, allora si capisce in che senso per Agamben,
la filosofia ha a che fare soprattutto con quel genere di scrittura che
precede un’opera poetica, cioè il proemio. Dal punto di vista della
scrittura, la filosofia sta nel suo precipuo elemento quando si rende
conto che l’idea dell’opera che il pensiero scriverà è già un’opera
dell’idea. Per tal motivo, potremmo immaginare la stessa riflessione
filosofica di Agamben come un insieme di note e commenti attorno a
pagine che costituiscono lo spazio intonso della possibilità di un’opera
a venire.
L’opera per eccellenza sempre a venire, quella che vive
solo nello spazio del tempo in cui essa accade, è la musica. Tale fare
del tempo spazio e materia è nominare epocalmente il legame tra essere e
linguaggio. Per questo secondo Agamben vi è sempre omologia tra musica e
politica di un’epoca storica. Quella in cui viviamo ha, sia per la
musica che per la politica, l’esigenza di una profonda riforma. Come
formulare quest’ultima, con quale ritmo voce idea nominarla è il compito
politico per eccellenza del pensiero – la risposta alla domanda che
cos’è la filosofia.