La Stampa 28.4.16
Perché la Cina ha tanta fame di Made in Italy
di Giovanni Andornino
L’interesse
recentemente espresso da parte cinese per squadre di calcio italiane di
primissimo piano come Inter e Milan non è casuale. Al contrario, è
ispirato - oltre che da logiche finanziarie immediate - dalla strategia
nazionale per la promozione del calcio in Cina promossa in prima persona
dal Presidente Xi Jinping.
L’obiettivo dichiarato è un salto di
qualità ambizioso - qualificarsi per i Mondiali - ma sono le
implicazioni economiche di lungo periodo che non dovrebbero sfuggire a
un Paese come l’Italia, in cui il pallone è tra le prime dieci industrie
nazionali.
Più in generale il recente, repentino approfondimento
delle relazioni economiche tra Italia e Cina va letto come l’inizio di
un ciclo che in prospettiva potrà modificare il panorama degli equilibri
e degli interlocutori internazionali del capitalismo italiano.
Le
prime avvisaglie di questa nuova dinamica si ebbero nel 2014: tra marzo
e luglio uno dei fondi sovrani riconducibili alla Banca centrale cinese
acquisì una partecipazione di poco superiore al 2% in Eni, Enel,
Prysmian, Fca, Telecom e Generali, facendo scattare l’obbligo di
comunicazione pubblica da parte della Consob per ciascuno di questi
titoli. Era il segnale: Pechino sceglieva di superare questa soglia
critica per trasmettere un messaggio pubblico di fiducia nell’economia
italiana e negli sforzi dei diversi governi per rendere il Paese più
attraente per gli investitori stranieri.
Una chiara indicazione
della nuova apertura di Roma sarebbe stata, di lì a poco, la decisione
della Cassa Depositi e Prestiti di cedere il 35% di Cdp Reti (la
controllante di Terna e Snam) a State Grid Corporation of China, optando
per un’inedita alleanza industriale con una delle maggiori società di
Stato cinesi in un settore strategico. Sul finire del 2015 l’ultima
grande operazione: l’acquisizione di Pirelli da parte del colosso
chimico cinese ChemChina per un importo superiore ai 7 miliardi di euro.
Nell’arco
di poco più di due anni, gli investimenti cinesi diretti e di
portafoglio in Italia sono così passati dall’essere quasi nulli a uno
stock di oltre 12 miliardi di euro, con flussi che nel 2015 hanno
portato l’Italia a posizionarsi tra le prime tre destinazioni degli
investimenti cinesi nell’Unione Europea insieme a Regno Unito e Francia.
Nel
particolare momento di transizione che l’economia cinese sta vivendo
oggi questa proiezione di capitali verso le economie europee risponde a
logiche stringenti. Sul versante della finanza sovrana, è noto che la
Cina mantiene imponenti riserve in valuta, seppure in graduale
contrazione: la diversificazione del portafoglio resta una priorità e la
stabilità dell’area euro è centrale in questo quadro. I frequenti,
accurati interventi della Banca centrale cinese nel mercato italiano
rispecchiano questa doppia esigenza.
In campo industriale, è ormai
un dato acquisito che gli anni della turbo-crescita cinese sono alle
nostre spalle e che il Paese si va assestando su una «nuova normalità»:
lo sviluppo della Cina in futuro non potrà dipendere da un uso più
estensivo di risorse: dovrà essere generato da incrementi di
produttività, ossia da innovazione tecnologica, efficienza nei processi e
riconoscibilità sul mercato. Sono questi gli asset strategici che le
imprese italiane posseggono: brevetti, know-how, maestranze fidelizzate,
marchi riconoscibili e l’autorevolezza del Made in Italy.
Questi
fattori, che hanno un evidente valore anche nel contesto italiano, agli
occhi di potenziali acquirenti cinesi sono resi ulteriormente appetibili
dalla consapevolezza che il mercato in Cina resta fortemente
presidiato. Per la più parte delle imprese italiane - specie le piccole e
medie - accedervi impone costi notevoli a fronte di rischi seri di
fallimento: una fusione o acquisizione da parte cinese può invece
spalancare le porte a un mercato già enorme e in via di rapida
maturazione, salvaguardando o incrementando produzione e posti di
lavoro. Per la controllante cinese, di converso, l’ottica è quella
dell’incremento repentino di competitività, bypassando i passaggi
intermedi richiesti dalla maturazione graduale di competenze locali.