Repubblica 27.4.16
Nove proposte per l’economia
di Vincenzo Visco
CARO
direttore, dopo la recente approvazione del Def può essere utile
provare a ragionare seriamente sullo stato e le prospettive
dell’economia italiana. È evidente che i vincoli e i condizionamenti di
una politica europea del tutto errata limitano fortemente lo sviluppo
dell’Unione, e la condannano a un destino di stagnazione. Da questo
punto di vista l’iniziativa assunta dal nostro governo di porre in
discussione e aprire un dibattito sulla linea finora seguita e i suoi
effetti è positiva e da condividere, anche se arriva con colpevole
ritardo, perché il dibattito andava aperto nel momento in cui l’Italia
aveva assunto la presidenza di turno dell’Unione, facendo leva sulle
perplessità e le preoccupazioni, già allora molto diffuse, delle
organizzazioni internazionali, degli Stati Uniti e della comunità degli
economisti. Si preferì cercare di ottenere margini di flessibilità per
il nostro Paese, invece di coinvolgere in un dibattito serio tutti i
Paesi. Analogamente, durante la crisi greca, sarebbe stato utile
contestare la linea violenta e prevaricatrice imposta a quel Paese,
invece ci defilammo. In ogni caso è evidente che oggi sarebbe decisivo
riuscire ad ottenere una revisione e un cambiamento della strategia
europea, tanto più che è chiaro che gli interventi della Bce, per quanto
utili, anzi indispensabili, non sono in grado di risolvere il problema
della ripresa europea.
Tuttavia l’Europa non può rappresentare un
alibi per i nostri problemi che sono in gran parte interni e vengono da
lontano. Da molto tempo infatti l’Italia soffre di problemi strutturali
che si manifestano in una pronunciata fragilità, in una crescita molto
bassa, e in una produttività stagnante o addirittura in diminuzione. Ciò
ha provocato un crollo della posizione relativa dell’Italia rispetto
agli altri Paesi europei in termine di Pil pro capite che nel 2000 era
di 17 punti superiore a quello medio dell’Unione Europea, mentre nel
2015 risultava inferiore di quasi 4 punti.
Il nostro Paese è
quello che, dopo la Grecia e Cipro, è stato il più colpito dalla crisi
del 2007-08. Abbiamo avuto due recessioni consecutive che hanno ridotto
il Pil di circa10 punti: ben peggio di quanto accadde nel 1929! I
consumi sono calati dell’8%; gli investimenti e la produzione
manifatturiera del 30% (in media !); la disoccupazione è cresciuta fino a
raggiungere il 12-13%; le esportazioni hanno recuperato i livelli del
2007, ma tra il 2007 e il 2014 il commercio mondiale è cresciuto del
20%; l’Italia non ne ha beneficiato.
La ripresa è in corso, ma
debole. La crescita del 2015 (0,6-0,7%) continua ad essere nettamente
inferiore a quella degli altri Paesi europei e della zona euro, ma quel
che è più preoccupante è che il rimbalzo dalla seconda recessione è
stato nettamente inferiore a quello che si verificò nel 2010, dopo la
prima recessione (1,7%). Il Clup (costo del lavoro per unità prodotta) è
aumentato dal 2000 al 2014 del 40% rispetto a quello tedesco, dato che
esprime in modo chiaro l’entità della perdita di competitività
dell’economia italiana. E tale perdita non può essere attribuita a
responsabilità sindacali, come in passato.
Recentemente Pierluigi
Ciocca ha presentato alcuni dati sull’economia del Mezzogiorno dopo la
crisi che sono impressionanti: crollo del Pil del 14% rispetto all’8%
del Centro Nord; consumi -13% (-15% quelli alimentari) rispetto a -6%;
investimenti -33% rispetto a -24%; disoccupazione: 21%, rispetto a 10%;
famiglie in povertà assoluta raddoppiate sia al Centro Nord che al Sud,
ma nel Sud rappresentano il 12%, cioè il doppio che al Centro Nord; tra
il 2001 e il 2013 la popolazione del Sud ha continuato a ridursi, e
l’emigrazione ha riguardato in particolare circa 200.000 laureati. La
spesa per opere pubbliche è scesa nel 2014 a 2 miliardi nel Sud, mentre
nel 1992 era pari a 10 miliardi; essa è invece di 11 miliardi nel Centro
Nord...
In sostanza, l’economia italiana si trova in condizioni
molto precarie che solo in parte dipendono dalla crisi finanziaria e
dall’Europa. Di queste questioni sarebbe opportuno discutere in modo
franco ed aperto, dicendo la verità al Paese e indicando una via
percorribile di miglioramento, dato che una soluzione immediata di tutti
i problemi non è possibile. Ma ciò non avviene.
I nostri problemi
sono peraltro noti: illegalità diffusa (corruzione, evasione fiscale,
malavita organizzata, clientelismo, nepotismo, affarismo, traffico di
influenze, ecc.) che rappresenta l’ostacolo principale alla ripresa;
imprese troppo piccole e quindi poco interessate ad investire, in
particolare in ricerca e sviluppo; sistema giuridico obsoleto,
soprattutto quello relativo alla regolazione dell’economia; burocrazia
paralizzata e vittima del diritto amministrativo e cioè di una visione
organicistica del settore pubblico che continua a prevalere; sistema
educativo in crisi (università) o da rivedere; carenza di infrastrutture
e di investimenti pubblici; diseguaglianza elevata e in aumento; poca
concorrenza e ampie posizioni di rendita, ecc.
Una strategia utile
per affrontare coerentemente queste questioni nel corso degli anni
manca; così come manca la consapevolezza dei problemi da parte della
classe politica nel suo complesso, e si continua a voler gestire una
situazione estremamente deteriorata con elargizioni a specifiche
categorie, ottimismo di maniera, cercando consenso a breve fino alla
successiva elezione.
Non che politiche alternative siano agevoli e
facilmente disponibili. Ma una strategia alternativa di massima può
essere prospettata. Eccone alcuni punti: 1) Porsi come obiettivo di
finanza pubblica a livello nazionale la sola riduzione del debito
pubblico, e combattere per una politica espansiva a livello europeo. 2)
Utilizzare tutti i margini di flessibilità europei per eliminare
definitivamente la clausole di salvaguardia. 3) Prendere atto del fatto
che ciò che è importante è ridurre le tasse alle famiglie e alle imprese
che oggi le pagano correttamente, e non ridurre la pressione fiscale
complessiva, dati i vincoli di bilancio esistenti, il che implica la
necessità di recuperare evasione da destinare alla riduzione delle
imposte: le proposte (avanzate da chi scrive) esistono da molto tempo,
il governo ne ha accolte alcune (quelle meno incisive) ma esita su
altre. 4) Farla finita con una politica fiscale che tra bonus vari,
incentivi, detassazioni settoriali o mirate, ecc. insegue i peggiori
istinti delle lobby e del Parlamento e distrugge ogni logica di coerenza
del sistema fiscale. 5) Utilizzare ogni altra risorsa residua per spese
di investimento ad alto moltiplicatore. 6) Continuare nel processo di
razionalizzazione della spesa pubblica a fini di risparmio, ma
riprendere le assunzioni (soprattutto qualificate) nel settore pubblico.
7) Impostare una coerente strategia di politica industriale. 8)
Affrontare in modo sistematico i problemi strutturali elencati più
sopra. 9) Coinvolgere le parti sociali e l’opinione pubblica nel
processo perché senza consenso non si riforma nessun Paese, almeno in
democrazia.
L’autore è economista ed ex ministro delle Finanze