Repubblica 21.4.16
La classe media rimasta senza lavoro. Un j’accuse contro il neoliberismo
Continuano a chiamarla flessibilità
di Richard Sennett
Sono
passati quasi vent’anni da quando scrissi “L’uomo flessibile”, uno
studio sui cambiamenti nell’economia e nelle condizioni del lavoro, e la
flessibilità a breve termine, che già a quel tempo iniziava a erodere
il nostro lavoro, è aumentata e, anzi, è andata peggiorando sempre di
più. I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del
lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe
medio bassa, un vero ristagno. L’esperienza della flessibilità del
lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla
struttura delle classi sociali. Le persone “nel mezzo” hanno meno
opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di
lavoro. L’offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso
tempo
le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità.
Non
ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare
una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea
sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello
domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per
l’autoimpiego.
Quella che è maturata è una flessibilità simile a
una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il
lavoratore attraverso la flessibilità. Ritengo, soprattutto dopo la
crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di intenderla come una
repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare nuove
opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la
possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione
non risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano
sul posto di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni
varie, sono negate alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi
creare nessuna rete informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e
dominazione del processo lavorativo in nome di una maggiore
flessibilità, ha solo peggiorato la situazione.
Alcuni sostengono
che, nel momento in cui il mondo del lavoro diventa sempre più precario e
insicuro trovare una sorta di cittadinanza sociale al di fuori del
contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno. Io non ci credo.
Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è profondamente
legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità. Tutto
questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In
questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l’homo
faber, l’operaio, è il fondamento di un senso di autostima.
Il
lavoro, come la produttività, sono fondamentali nella costruzione del
rispetto di sé e della struttura familiare. Non credo si possa avere una
cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part- time, o sull’assenza
di lavoro, come fonti alternative da cui trarre soddisfazione. Questo
vale sia per le donne sia per gli uomini.
La questione, per noi
oggi, è come tornare ad avere il controllo del “posto di lavoro”. La mia
opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori
pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro, ma,
ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio
o nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto
il diritto a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver
investito parte della sua vita in quel lavoro). Questo accade perché
quello che si configura è un sistema di flessibilità che non fa ricadere
alcuna responsabilità sui datori di lavoro.
In Gran Bretagna
stiamo realizzando che ciò è un problema. Consideriamo il caso delle
nostre acciaierie. Di fronte alla crisi il governo dice: «Noi non
abbiamo alcuna responsabilità a riguardo, sono problemi vostri». Non
sono d’accordo. Il governo ha una responsabilità verso questi lavoratori
(per esempio quei settori della Tata Steel che stanno chiudendo),
semplicemente perché il lavoro è una risorsa. Il governo dovrebbe
aiutarli a mantenere i loro stipendi, aiutarli a trovare un nuovo
lavoro, perfino acquistando l’intera Tata Steel per per fare in modo che
i lavoratori vadano avanti. Credo che ciò di cui abbiamo davvero
bisogno sia fare i conti con i modi in cui questa figura disfunzionale –
il capitalismo flessibile – possa essere fronteggiato dallo Stato.
Non
sono un tecnofobo. La mia riflessione ha molto a che fare con i lavori
che ho condotto, con i miei studenti, presso la London School of
Economics.
È vero che la robotica sta sostituendo certi tipi di
lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello dei
lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi
apprendere che in realtà l’ambito di applicazione delle macchine
digitali nel lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti
estremi e che molte delle cose che la gente fa manualmente, più o meno
lavori di manutenzione come l’idraulico, l’elettricista, e così via,
sono già meccanizzati al massimo delle possibilità. Esattamente come per
il lavoro industriale, sia per il lavoro qualificato sia per quello non
qualificato si è arrivati a una sorta di limite.
Le macchine
stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come quello
degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli
ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di
basso livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica
digitale. Questa tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il
concetto di forza lavoro della società dei colletti bianchi. Ciò si
interseca con il fatto che le classi stagnanti in questa fase del
capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori delle classi
medio-basse.
Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta
la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli
effetti di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe
che, in questo momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata
largamente marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della
ragione di mercato. Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo
Stato assuma un ruolo maggiore nel supporto alle classi medio basse,
garantendo il lavoro, anche se quel lavoro non produce profitto o
potrebbe essere anche svolto da una macchina. Dobbiamo tornare a credere
che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al
neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.