Repubblica 21.4.16
Da Atene a Auschwitz chi ha tradito la democrazia
di Ezio Mauro
La lezione di Jules Isaac un inno alla libertà oggi sempre più attuale
LO
splendore eterno della democrazia, tutta la fragilità della sua miseria
sono rinchiusi nella vecchia borsa da professore che Jules Isaac si
trascina dietro tra i campi e i boschi, i piccoli alberghi e i fienili
della Francia meridionale, tra Aix-en-Provence, Chambon-sur-Lignon, Riom
e Royat, scappando per nascondersi. Tutt’attorno, il governo di Vichy,
l’umiliazione francese del collaborazionismo di Pétain con l’occupante
nazista, la deportazione degli ebrei con tre convogli di mille persone
che partono ogni settimana per i campi di sterminio. Isaac ha appena
subito un rovesciamento totale della sua vita e non ha ancora visto il
peggio. Ebreo laico di famiglia alsaziana, padre e nonno decorati con la
Legion d’Onore per meriti militari, lui stesso ferito nella Prima
guerra mondiale dopo 30 mesi di trincea.
Allievo di Bergson e
compagno di Charles Péguy, scrive il manuale di storia su cui
studieranno quattro generazioni di francesi e diventa Ispettore generale
del ministero dell’Educazione Nazionale. Dal 1940, per le leggi
razziali, il maresciallo Pétain che gli aveva chiesto di diventare il
suo storiografo lo destituisce da ogni incarico, lo caccia
dall’università, lo radia dall’Ordine della Legione. Il professore è
bandito, deve lasciare Parigi, non sa dove andare. Ha un amico letterato
che insegna ad Aix, lo raggiunge chiedendo
rifugio. Mentre
attraversa la linea di demarcazione, con la moglie Laure e i tre figli,
legge il cartello del bando di regime: «Passaggio vietato ai negri e
agli ebrei».
Cravatta, baffetti grigi, camicia bianca dal colletto
floscio, Jules si salva quasi inconsapevolmente passando di mano in
mano tra un intellettuale che lo protegge e un professore che lo
nasconde, mentre a Parigi l’accademico Abel Bonnard denuncia lo scandalo
di vedere «la storia di Francia insegnata ai giovani dai libri di un
Isaac». Nella semiclandestinità di Vichy la famiglia cambia nome, si
chiama Marc. Ma la Gestapo si avvicina. Daniel, il figlio più grande,
collabora con la Resistenza, i Marc finiscono sotto osservazione.
All’inizio di ottobre del ’43 la polizia arresta il figlio minore,
Jean-Claude, con la sorella Juliette e il marito. La madre parte subito
per Vichy chiedendo notizie dei suoi: il giorno dopo la Gestapo verrà a
Riom per arrestarla insieme col marito. Jules Isaac è fuori, sfugge per
una casuale combinazione del destino al campo di Auschwitz dove
moriranno la moglie, la figlia e il genero, mentre il figlio riesce a
fuggire. Solo, senza più libri né famiglia, il professore sopravvive
scrivendo. Anzi, scrivendo trova la forza per resistere, il suo modo per
testimoniare. A Aix-en-Provence aveva iniziato un lavoro sulla caduta
della democrazia di Atene per mano degli oligarchi. Tra gli spettri di
Vichy il saggio entra e esce dalla cartella, trova tavoli di fortuna,
luci notturne, angoli rubati alla disperazione. Si dilata nel suo spazio
morale, i piani della tragedia contemporanea e del dramma
dell’antichità si confondono e si sovrappongono, mentre la lezione di
civismo si unifica in un atto di fede disperato nella democrazia che
testimonia se stessa, morendo. Si può fare storia, nell’abisso di Vichy?
Si deve, dice a se stesso Isaac, perché è l’unico modo che lui ha per
restare se stesso mentre è privato di tutto, e soprattutto è il modo più
giusto per interpretare il presente. «Voglio mostrare quale fu il ruolo
del partito oligarchico di Atene, nemico mortale della democrazia —
spiega nella prima pagina degli Oligarchi, ora pubblicato da Sellerio —
Nel 404 avanti Cristo Atene dovette piegare le ginocchia davanti a
Sparta. È nel 1942 dopo Cristo, nella Francia soggiogata dalla Germania
hitleriana, che queste pagine sono state scritte.
Duemilatrecentoquarantasei anni — la metà dei tempi storici — separano
l’autore dal suo soggetto. Piuttosto che nello spazio ha scelto di
fuggirsene nel tempo. Ed ecco quel che vi ha trovato ». La libertà,
vista dal fondo del vortice nazista, è il cuore di ciò che Atene ha
perduto e di ciò che aveva costruito negli anni della sua felicità
insolente, con l’avorio, il marmo e l’oro dell’Acropoli che riflettevano
la maestà imperiale di una democrazia sfavillante nella trinità senza
mistero del potere, della ricchezza, delle belle arti riunite davanti al
Pireo sui cui banconi si raccoglievano tutti i prodotti dell’universo.
Se Sparta è quasi una creatura ideologica, incarnando nella sua durezza
l’idealtipo oligarchico, Atene resta l’archetipo dell’ideale
democratico, ingigantito nel suo fascino dallo splendore della città. Ma
la bellezza non salva da sola la democrazia. Anzi, la bellezza si
espone agli dei vendicatori che «per realizzare i loro disegni trovano
sempre gli uomini adatti, all’ora adatta, quella del disastro».
Gli
uomini sono gli oligarchi. La descrizione di questa classe-setta di
Atene nel 404 a.C. vale per il potere collaborazionista del 1942, ma
vale anche oggi, settant’anni dopo. Non sono la maggioranza moderata
dell’aristocrazia ateniese (fatta di uomini d’ordine conservatori e
moderati, nemici della violenza) ma il suo cuore radicale e ideologico,
settario, nemico del popolo e della democrazia, trascinato da una
capacità d’odio talmente assoluta da spingerli a puntare ogni volta sul
peggio, a sognare il disastro da cui trarre profitto, invocando persino
la guerra sperando che finisca male. Le parole d’ordine sono quelle
eterne dell’ideologia conservatrice d’ogni tempo, Natura e Forza, con
Callicle che nel Gorgia di Platone spiega come «la legge sia fatta dai
deboli e per loro. Ma la natura stessa dimostra che per essere giusti
colui che vale di più deve prevalere su colui che vale di meno, il
capace sull’incapace». Se dunque la democrazia è questa istituzione
contronatura da abbattere a tutti i costi e senza rimorsi, occorre
ancora l’occasione, quel “vento cattivo” capace di gonfiare le vele
dell’oligarchia. Insieme, come nota oggi Luciano Canfora in una
bellissima prefazione, a due cedimenti nella democrazia ateniese che si
riprodurranno anche negli anni di Vichy: una forte corrente politica
interna al Paese stremato pronta ad accogliere il “nuovo ordine”, il
trasformismo opportunistico dei capi popolari pronti sia in Francia che
ad Atene a passare con gli estremisti del nuovo potere.
Quando la
flotta ateniese della spedizione di Sicilia è annientata, con la città
in lutto, ecco per gli oligarchi l’occasione, anzi “la divina sorpresa”,
come Charles Maurras nel 1942 saluterà l’arrivo al potere a Vichy del
maresciallo Pétain: «Nel disastro e nella rotta le nostre idee si
trovavano molto vicine a giungere al potere». Ad Atene “la divina
sorpresa” è un’opinione pubblica sconcertata e provata dalla guerra,
pronta a tutto. Guardandosi attorno nelle campagne di Vichy, Isaac
annota il clima del terrore ateniese: «Conversioni, servilismi verso i
nuovi padroni, una splendida fioritura di vigliaccheria », mentre i
Trenta oligarchi divideranno i pieni poteri, la violenza, la
sopraffazione, perché è fatale che l’usurpazione finisca in repressione,
finché i cittadini si ribellano e Atene intera giura nuovamente fedeltà
alla democrazia. Ma ecco nel 406 il processo agli strateghi, con i
membri delle famiglie degli equipaggi delle triremi morti senza
sepoltura che prendono posto in Assemblea vestiti di nero e con la testa
rasata a zero, insieme testimoni, vittime e accusatori dei sei
strateghi schiacciati dalla forza simbolica della loro presenza. Così
quando Callisseno chiede un verdetto collettivo, una sola sentenza che
vincoli tutti gli accusati nella colpa mandandoli insieme al supplizio, a
nulla vale il richiamo alla legge, al giuramento democratico, agli dei.
«Come presa da follia la democrazia era caduta nella trappola in cui i
suoi nemici l’avevano attirata», scrive Isaac. Meno di un anno dopo
Lisandro annienta la flotta di Atene che dopo l’assedio e la fame
capitola accettando di subordinarsi a Sparta su terra e in mare: «Era la
libertà nella schiavitù».
La Francia collaborazionista con Hitler
che la occupa spiega a Jules Isaac quel che è potuto accadere alla
democrazia ateniese: come quando un uomo perde conoscenza per uno choc
violento, scrive, così capita che un popolo precipitato dalla sua
grandezza resti come inerte, privo di coscienza, alla mercé delle
canaglie o dei fanatici. Così ad Atene il colpo di Stato va in scena
«con il demos incatenato e il nemico all’Acropoli», come vogliono gli
oligarchi. A loro infine si rivolgerà Trasibulo dopo aver sacrificato
alla dea gratitudine per la città ritrovata dopo il terrore e
l’arbitrio: «Ditemi, dunque, su che cosa voi fondate la vostra
superiorità? Il popolo vale molto più di voi, dimentico del male che
avete fatto saprà mantenere il suo giuramento». La malvagità dei
cosiddetti “buoni”, nota Isaac, sarà stata superata solo dalla clemenza
dei “cattivi”. Da allora, aggiunge, «sono trascorsi 2344 anni, e mentre
sto scrivendo queste ultime righe da qualche parte in Francia — quella
che fu la Francia — il sabato 17 ottobre 1942, i “buoni” sono sempre
così malvagi, resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
Nelle
stesse ore i giornali fascisti di Vichy spiegavano le ragioni dei
“buoni”. Basta scorrere gli articoli di Robert Brasillach su Je suis
partout scritti proprio in quei giorni e appena ripubblicati in Italia
da Settimo Sigillo: «Il dottor Goebbels ha pronunciato parole che
sarebbe uno sbaglio non meditare sui popoli che si ripiegano su se
stessi, sui popoli che sognano solo della passata opulenza e non si
rendono conto dello sforzo che fa la Germania ». Ma «il cancelliere
Hitler ha agito in fretta. In mezzo agli innumerevoli impegni che
l’ultimo cavaliere dell’ordine teutonico ha nel suo territorio
orientale, egli ha avuto per la Francia questo pensiero simbolico,
significativo e pratico. Non siamo spariti dal campo d’azione del mondo
nuovo». Tuttavia «l’attendismo non paga». «Per andare d’accordo con il
nuovo mondo ci vuole una Francia nuova. Per andare d’accordo con
l’Europa fascista ci vuole una Francia fascista».
Era l’11
settembre 1942 quando Brasilach scriveva questa esortazione. Da qualche
parte nella campagna, probabilmente di notte, Jules Isaac tirava fuori
dalla sua borsa per un’ultima volta il manoscritto degli Oligarchi per
la correzione finale. Da poco aveva cominciato a rileggere i Vangeli in
greco, grazie al prestito di un curato di paese, e a ragionare sullo
scarto tra gli scritti evangelici e l’insegnamento della Chiesa sugli
ebrei. Incomincia a lavorare sul testo di Gesù e Israele, il libro in
base al quale chiederà nel ’49 a Pio XII di rivedere la preghiera del
Venerdì Santo, offensiva per gli ebrei, finché nel ’60 sarà ricevuto in
udienza privata da Giovanni XXIII, ispirandogli la revisione
fondamentale della Nostra Aetate.
In quei giorni un secondo
manoscritto cresce dunque nella cartella del professore che si muove
alla macchia, sulla strada tra Riom e Clermond Ferrand con indosso
l’ultimo vestito che gli è rimasto, nascondendosi di giorno per scrivere
di notte, fedele a quel messaggio che la moglie gli ha lasciato
sull’ultimo biglietto prima dell’arresto, e che lui tiene nel
portafoglio: «Mio caro, prenditi cura di te, abbi fiducia e finisci il
tuo lavoro. Il mondo lo aspetta».
Parla delle vicende narrate da
Tucidide ma ha negli occhi i collaborazionisti Sua moglie e sua figlia
moriranno ad Auschwitz, lui si salverà per un caso
IL LIBRO Jules Isaac Gli Oligarchi ( trad. P. Fai Sellerio pagg. 392 14 euro)