giovedì 21 aprile 2016

Repubblica 21.4.16
Clinton contro Trump, l’America ha deciso
È il “nonno” Sanders però che tiene in pugno la vittoria di Hillary
di Vittorio Zucconi

MEZZO secolo dopo la grande rivolta giovanile del Sessantotto e la scoperta shock della guerra fra generazioni, è di nuovo il “Great Divide”, l’abisso fra giovani e meno giovani il luogo dove la prossima presidenza degli Stati Uniti sarà decisa. Ora che i volti dei due contendenti finali sono stati tracciati dal netto successo di Clinton su Sanders ben oltre i sondaggi e dal trionfo dell’inarrestabile Narciso Donald Trump a New York, il futuro della guida politica degli Stati Uniti torna dove era nel tumultuoso 1968. Nella alleanza, o almeno nell’armistizio fra generazioni. Ed è questo il problema che Hillary Clinton dovrà risolvere se vorrà sperare di controllare Trump e di batterlo in novembre.
Un problema che non si pone per i repubblicani, dove Donald Trump esercita il proprio magnetismo attraverso l’anagrafe e, sempre di più, anche attraverso le classi sociali e di reddito. Lo fa con il grimaldello passepartout del suo appeal ringhioso e nazionalista che unisce nel coro ritmato e disperato di U-s-a, U-s-a gruppi di elettori che teoricamente dovrebbero essere opposti fra loro, giovani disoccupati sottoistruiti e miliardari da yacht club, sindacati protezionisti e piccoli imprenditori sull’orlo del fallimento, famiglie dell’America rurale e metrosexual affascinati dal principio secondo il quale “niente ha successo come l’eccesso”. Trump è Trump, un fenomeno unico, paradossale, ma efficace. E da tutti sottovalutato.
Il problema del “Generation Divide”, del gap generazionale come si diceva in passato, è tutto di Hillary e del Partito Democratico. I dati sono spaventosi, per la signora: a New York, che per un candidato democratico è uno Stato teoricamente sicuro ed elettoralmente indispensabile, il 72% degli elettori dem sotto gli “anta” ha votato per Sanders e per vedere rovesciarsi il rapporto si deve salire oltre i sessant’anni. Anche tra le donne, che avrebbero dovuto — e dovranno — rappresentare — l’ancoraggio sicuro per le ambizioni di Hillary lo squilibrio anagrafico è massiccio. Non è il genere, ma è l’età che segna la divisione fra “Clintonistas” e “Sanderistas”.
I giovani, e le giovani, soprattutto quelli impegnati o intrappolati nel labirinto universitario dal quale escono con un titolo di studio quadriennale che non garantisce il lavoro, ma affranti da un debito medio a testa di quasi 30 mila dollari contratto per pagare le rette rapinose, non si riconoscono in Hillary. Avevano riposto le loro speranze, i loro sogni, la ritrovata voglia di partecipare alla vita democratica nel 74enne Sanders, piuttosto che in lei. Neppure l’appello femminista, inizialmente un po’ maldestro, tentato da Hillary ha funzionato, forse perché le ragazze, ha detto l’umorista Bill Maher intervistando la “sanderista” Susan Sarandon, si fidano più del nonno che della mamma. Magari nel sospetto che le mamme, e i papà, abbiano creato, con il proprio soddisfatto egoismo, una società che appare a loro ingiusta, chiusa, fondamentalmente un legno “storto” dal danaro della grande finanza e incapace di promettere un futuro, almeno uguale, se non migliore, materialmente e moralmente.
È dunque il “nonno” rivoluzionario del Partito Democratico colui che tiene in pugno la vittoria di Hillary e la sconfitta di Trump. Nessun altro, nessuno dei “surrogati” della signora, nemmeno il marito, l’ex presidente Bill che finora ha fatto più guai che prodotto vantaggi con le sue uscite a favore della moglie, può trascinare la recalcitrante gioventù che aveva “Feel the Bern”, aveva sentito la piacevole bruciatura di Sanders, sotto le bandiere di Hillary. Soltanto lui può convincere quegli elettori divenuti militanti e attivisti alla dolorosa accettazione del “male minore”, di Clinton rispetto a Trump, qualche cosa che per un ventenne rappresenta sempre una rinuncia amara ai propri sogni.
Da come lui si muoverà fino a martedì prossimo, il 26, quando una slavina di delegati per Hillary prodotti negli stati come Pennsylvania o Maryland chiamati a votare segnalerà la definitiva impossibilità di una rimonta, dalla credibilità di una sua accettazione della sconfitta e del sostegno a lei, dipenderà il successo elettorale di Clinton contro Trump. Sanders, lo sconfitto che ha vinto la battaglia delle idee e ha sparso semi che fra anni produrranno candidati più progressisti e più credibili, è divenuto il “kingmaker”, colui che può consegnare, o togliere per sempre, la corona all’avversaria, aiutandola a costruire un ponte sull’abisso fra generazioni. O cadere invece nella perenne tentazione delle sinistre “pure e dure”, decise a far crollare il tempio con tutti i filistei moderati, consegnandolo agli altri. Per principio.