giovedì 21 aprile 2016

il manifesto 21.4.16
Sanders rimane in corsa perché ha fatto breccia anche nel «mainstream liberal»
La Bernie revolution. Lo stesso New York Times, che pure ha dato il suo endorsement a Hillary, riconosce che «la presenza di Sanders ha reso questa corsa una competizione infinitamente più di sostanza, una corsa nella quale le politiche di entrambi i candidati sono state meglio verificate, e di conseguenza meglio delineate»
di Guido Moltedo

Dopo le primarie nello stato di New York, Hillary Clinton raggiunge l’81 per cento dei delegati necessari per ottenere la nomination democratica. Bernie Sanders il 50 per cento. I numeri dicono che un sorpasso, da parte del senatore del Vermont, è adesso più difficile, ma ancora impresa possibile. Dietro la cruda matematica c’è però un’analisi della «qualità» del voto di martedì che rende scoraggiante, per lo sfidante di Hillary, la prospettiva di una rimonta. La partita newyorkese era difficile, ma questo era messo nel conto da Tad Devine e dagli altri consiglieri di Sanders. Accadde anche a Barack Obama di perdere malamente, nel 2008. Ma anche considerando che Hillary, per due mandati senatrice dello stato di New York, era largamente la favorita nei sondaggi, non solo non si può minimizzare l’ampiezza del distacco (58-42) ma soprattutto non va sottovalutato l’arco variegato di settori demografici che hanno votato Hillary.
Il popoloso stato di New York è importante non solo per l’alto numero di delegati che invia alla convention ma anche perché è uno degli stati che meglio contiene la varietà sociale, etnica, religiosa e culturale del melting pot nordamericano. E che il Partito democratico, la «grande tenda» interclassista e multietnica, storicamente rappresenta. Nello stato di New York si è visto, martedì, come l’elettorato di Clinton sia una «coalizione» che riflette bene questa varietà, mentre Sanders fatica ad ampliare la base che fin dall’inizio ha creduto in lui e l’ha seguito e sostenuto, ad ampliarla in modo tale da poter sperare di superare Clinton nelle primarie, in particolare nelle primarie che demograficamente somigliano di più a quelle dello stato di New York. Come le prossime in Pennsylvania. E soprattutto in California. Certo, il processo accumulativo di crescita e di ampliamento dell’originario blocco elettorale sandersiano è un fenomeno impressionante, se si considerano le posizioni di partenza.
La progressiva conquista di quote di elettori all’inizio refrattarie al suo messaggio – africani americani, ispanici, classe operaia bianca, anziani, donne – è stata consistente ma non è ancora sufficiente, dice il risultato di New York. Probabilmente, se la competizione durasse ancora qualche tempo, le chance di Bernie aumenterebbero significativamente. Non è così, ma questa non è una buona ragione per Sanders per gettare la spugna. Infatti, la corsa va avanti e anzi, come è accaduto nelle precedenti sconfitte, l’elettorato più militante reagisce anche stavolta con un sovrappiù di orgoglio e di sostegno, anche finanziario, per Bernie. Il quale ha commentato i risultati di New York in un comizio affollatissimo nell’università statale della Pennsylvania, con toni e parole ad alto tasso di combattività che tutto fanno pensare, tranne a una sua volontà di farsi da parte. Questo vorrebbe il fronte avverso. L’ha detto chiaramente la portavoce della campagna di Hillary, Jennifer Palmieri.
Il solito discorso che si fa in queste circostanze, con parole, peraltro, che sembrano fatte apposta per ottenere l’esito opposto a quello desiderato. Il succo: continuare la corsa, continuare ad attaccare Clinton da parte di Sanders, è «destructive», è solo un favore a Trump e ai repubblicani. Niente di più sbagliato, è lo stile supponente che più di ogni altra cosa rende antipatica Hillary e con lei i clintoniani.
Come ha detto David Axelrod, la mente delle campagne elettorali di Obama, Clinton «è chiaramente irritata dal fatto di doversela vedere con questo signore». A preoccupare i clintoniani non sono tanto le munizioni che Sanders può passare ai repubblicani, con i suoi attacchi. È la sua stessa presenza, nella competizione, a fare spiccare evidenti le negatività di Hillary che a una parte consistente dell’elettorato leale a Sanders rendono indigesto, ad alcuni impossibile, il passaggio sotto le insegne clintoniane, nella sfida finale di novembre, quando e se sarà lei la nominee democratica.
Lo stesso New York Times, che pure ha dato il suo endorsement a Hillary, riconosce che «la presenza di Sanders ha reso questa corsa una competizione infinitamente più di sostanza, una corsa nella quale le politiche di entrambi i candidati sono state meglio verificate, e di conseguenza meglio delineate». Quindi, proprio per questo, la gara deve continuare e Sanders non deve farsi da parte, secondo il New York Times. È un fatto salutare per la politica, per la democrazia americana. L’editoriale del NYT assume un significato politico ancora più rilevante perché dà al ruolo di Sanders un senso e un significato non effimero che va oltre la corsa stessa. Il giornale coglie bene la portata di quanto sta accadendo quando sottolinea come Sanders abbia «dato voce alle preoccupazioni di milioni di giovani, molti dei quali elettori per la prima volta, e li abbia caricati di energia».
La sua candidatura «ha costretto il partito ad andare più a fondo nell’affrontare temi come la l’ineguaglianza economica, i costi delle tasse e delle rette universitarie, il pedaggio da pagare alla globalizzazione». Di grande rilievo «l’impegno profuso perché la campagna fosse finanziata con piccoli contributi individuali», cosa che ha sgombrato il campo dalla «scusa» dei democratici, secondo cui «anche loro, per vincere, devono cercarsi grossi finanziamenti». Sono tutti punti di una profonda riforma del Partito democratico. Il messaggio di Sanders non avrà finora raccolto i consensi necessari per ottenere l’incoronazione democratica, ma, come si capisce dall’editoriale del Nyt, ha fatto breccia nel cosiddetto mainstream liberal, quegli stessi ambienti che all’annuncio della sua candidatura, avevano reagito, nel migliore dei casi, con l’indulgente simpatia che si deve al vecchio idealista votato a immolarsi sotto il rullo compressore dello status quo.
Proprio perché la sua corsa, per unanime riconoscimento, è considerata una sfida non solo alla Clinton ma all’establishment, il suo ritiro è impensabile, e ancora più impensabile la sua partecipazione alla convention come candidato sconfitto. Ci arriverà e ci sarà, da protagonista.