Repubblica 20.4.16
L’Apocalypse Now del soldato Jünger
Esce in Italia il romanzo autobiografico “Fuoco e sangue” un altro epico affresco nelle trincee della Grande guerra
di Franco Marcoaldi
Erano
 i primi anni novanta del secolo scorso ed Ernst Jünger  (1895- 1998) 
stava entrando nella cerchia dei grandi patriarchi: veleggiava ormai 
verso i cento anni, in buona forma fisica e piena integrità mentale. 
Dopo una lunga stagione segnata da un generalizzato ostracismo verso la 
sua opera e i suoi forsennati osanna alla bellezza
della guerra 
che, si diceva, avrebbero fatto da concime ideale al futuro regime 
nazionalsocialista (dimenticando però la sua avversione a Hitler), da 
tempo il pendolo si era spostato nella direzione opposta. E adesso il 
suo romanticismo antiborghese, le visionarie riflessioni sul nichilismo 
trascinato dalla forza irresistibile della tecnica, la prefigurazione 
profetica di uno “Stato mondiale”, la figura stilizzata dell’Anarca che 
aristocraticamente si ritira nel bosco per sfuggire alla massificazione 
dilagante, suggestionavano frange di pubblico via via più estese. Anche,
 e soprattutto, nell’ambito di una variegata area culturale di sinistra.
Ma
 all’intervistatore che si recò trepidante nella sua casa-museo in stile
 Biedermeier ai bordi di Wilflingen, piccolo borgo dell’Alta Svevia, si 
presentò l’uomo distaccato e imperturbabile di sempre. Stellarmente 
lontano da polemiche politiche contingenti. Completamente disinteressato
 ad esse. Più propenso, semmai, a disegnare eterei scenari 
cosmico-astrali o a concentrare l’attenzione, da bravo entomologo e 
studioso dei coleotteri, su minuscoli dettagli — meglio se inerenti al 
mondo naturale.
L’arrivo nel salottino dove Jünger riceveva — con 
al centro una poltrona su cui, come amava ricordare, si erano seduti 
Borges, Heidegger e Schmitt, era preceduto da un cerimoniale che presumo
 si ripetesse immancabilmente per tutti gli ospiti che arrivavano qui 
dal mondo intero. Accompagnati dalla seconda moglie Liselotte, si 
passava rapidamente davanti alle tante collezioni di clessidre, serpenti
 impagliati, idoli scolpiti in zanna d’elefante e soprattutto a quella, 
mirabile, dei famosi coleotteri; poi una breve sosta per rimirare lo 
scaffale dedicato alla sua monumentale Opera (saggi, romanzi, diari, 
libri di viaggio) e infine ecco il celebre elmetto della prima guerra 
mondiale, «sforacchiato in più punti », che gli avrebbe consentito di 
uscire indenne dal conflitto e con in tasca la massima decorazione 
dell’esercito, l’Ordre pour le Mérite. Ora tutto era pronto per 
l’entrata in scena del Grande Tedesco, il mago di Wilflingen: piccolo, 
compatto, altero — due occhi chiarissimi, di ghiaccio, come di ghiaccio 
era il suo temperamento. Ragione non secondaria, forse, della sua 
straordinaria longevità.
Jünger sarebbe morto il 17 febbraio 1998,
 all’età di 103 anni: dopo tanto oscillare, il pendolo della sua fama 
malinconicamente si fermò. Sulla sua figura calò un lungo, interminabile
 silenzio, che per anni ha di fatto cancellato il suo nome dalle pagine 
dei giornali.
Per questo ora che Guanda, uno dei suoi editori storici, pubblica Fuoco e sangue. Breve episodio di una grande battaglia
nella
 redazione definitiva del 1978 (traduzione di Alessandra Iadicicco), 
dopo la prima pubblicazione del 1925, cogliamo al volo l’occasione per 
tornare su una delle figure più controverse e discusse del Novecento 
letterario. Anche perché il libro, grosso modo coevo al celeberrimo 
Nelle tempeste d’acciaio e a Boschetto 125, ci ripropone lo Jünger di 
gran lunga più noto: lo “scrittore-guerriero”, impegnato stavolta sulle 
trincee della prima guerra mondiale, che con la sua oggettiva prepotenza
 stilistica ha finito per offuscare tanti altri versanti della sua 
opera.
Fuoco e sangue incentra il suo racconto sul 21 marzo 1918, 
giorno prescelto dall’esercito tedesco per lasciare le trincee e 
attaccare in campo aperto le postazioni nemiche. Il pluridecorato 
sottotenente della Wermacht restituirà con precisione chirurgica ogni 
singolo aspetto di quella operazione militare, nel contesto umano di 
un’ebbrezza generalizzata e furiosa, incontenibile.
La lettura del
 libro conferma quanto già si sapeva: nel descrivere i campi di 
battaglia, Jünger non ha eguali — nel bene e nel male. La sensibilità di
 chi ha in qualche modo introiettato il tabù della guerra, rimarrà 
ferita — insofferente alla dichiarata fascinazione per la «selvaggia 
azione virile» di corpi che cozzano, granate che esplodono, feriti che 
gemono. Ma è difficile negare che quella fascinazione per il fuoco e il 
sangue alberghi da sempre nell’animo umano. E allora bisogna riconoscere
 che, nel descriverla, il giovane Jünger è un assoluto maestro. Perché è
 pervaso dallo stesso fascino («è la terra che ama i combattenti »). 
Perché la considera l’incarnazione inevitabile di un’idea eroica mutuata
 dalle pagine della grande letteratura classica. Perché la indaga con la
 freddezza e la precisione dell’entomologo. Perché vi coglie i grandi 
cambiamenti d’epoca.
La gioia febbrile dei primissimi scontri, 
«l’incantesimo delle armi lampeggianti» e del «sangue schiumante», 
sembra trascorsa. Dal 1914 al 1918 molto è cambiato. Prima tutto si 
giocava con fucile, baionetta e un paio di granate. Ora «i materiali» 
hanno preso il sopravvento, la macchina domina sull’uomo: «Il 
combattimento è una spaventosa misurazione delle industrie e la vittoria
 è il successo del concorrente che sa lavorare in modo più veloce e 
spietato». Resta comunque stupefacente che non siano tanto gli ordini, 
bensì un obiettivo comune e sottotraccia a unire tutti questi 
combattenti «in apparenza spinti dal caso », e mossi invece dalla 
stessa, irresistibile «corrente di forza». Come presi da uno stato di 
possessione collettiva.
Frattanto, via via che scorrono le pagine,
 si ha la sensazione che il giovane soldato-scrittore si muova sempre 
lungo un doppio binario. Mentre combatte, annota mentalmente quanto 
scriverà sul suo diario alla prima pausa degli scontri. E tale 
sensibilità stereoscopica raggiunge il suo acme quando Jünger descrive 
il momento in cui viene ferito: «La pallottola, sotto la croce di ferro,
 ha perforato il petto per la lunghezza di una spanna». Il sottotenente 
osserva dunque il suo corpo come se fosse un oggetto estraneo; come un 
materiale letterario, tra gli altri, utile ad arricchire le proprie 
pagine.
E difatti: benché sanguinante, e sottoposto alle raffiche 
del fuoco nemico, indugia ancora un momento prima di mettersi al sicuro.
 Deve recuperare da terra un portacarte di pelle trafugato agli 
ufficiali dell’esercito nemico il giorno precedente. C’è il suo diario, 
lì dentro. E l’esperienza di questo inferno perderebbe ogni senso, se 
non si trasformasse in pagina letteraria. In esercizio di stile.
IL LIBRO Fuoco e sangue di Ernst Jünger (Guanda, trad. di A. Iadicicco pagg. 180, 16 euro, domani in libreria)
 
