mercoledì 20 aprile 2016

Corriere 20.4.16
Apollinaire cronista del Cubismo La scrittura prestata all’arte
di Sebastiano Grasso

Ad Apollinaire piace fare sfoggio del suo diploma di stenografo. A Picasso e Max Jacob che lo guardano con aria interrogativa, spiega: «Scrivo con la stessa velocità con cui parlo». «A che cosa ti serve?», chiede uno dei due. «Assolutamente a nulla», risponde.
Parigi, 1904. I tre amici fanno lunghe passeggiate a Montmartre, durante i quali Guillaume — un anno in più di Picasso e quattro meno di Jacob — subissa di domande i compagni e parla loro degli imperatori romani e di Fantômas, di Nick Carter e di Buffalo Bill. Conosce cinque lingue, ha una memoria prodigiosa e ama stupire gli amici, che lo adorano. Scrive di tutto: poesie, prose, articoli su riviste e giornali («Revue d’Art Dramatique»,«Revue Blanche»), calligrammi (lettere che formano figure, che, assieme ai versi di Alcools , rinnovano la lirica francese), poemetti, testi erotici.
Questo genio irregolare e borghese è nato a Roma nel 1880. Il nome? Whilhelm Apollinaris (nome di una bevanda che egli riporta nel suo romanzo libertino Le undicimila verghe , del 1907, edito in Italia da Es nel 1991). Il padre — che non volle riconoscerlo — pare fosse un ufficiale dell’armata reale delle Due Sicilie; la madre, Angelika de Waz-Kostrowitzka, era una nobile polacca, figlia di un ufficiale del Vaticano. Palazzi, alberghi, case da gioco, amanti: alla fine la donna si trasferisce coi figli Guillaume e Albert (nato dopo) a Parigi, ma avendo essa dilapidato quasi tutto il patrimonio, Apollinaire per vivere stila testi pubblicitari, fa il «negro» per un autore di romanzi popolari pubblicati a puntate su «Le Matin», scrive tesi di laurea, insegna francese a Gabrielle, figlia del visconte di Milhaud (e corteggia la governante inglese della bambina, cui dà poesie scritte per altre donne).
La «banda» di Apollinaire è formata da Picasso e Jacob, entrambi amanti delle stramberie del poeta apolide e strambi essi stessi. Le cronache del tempo narrano di Picasso che di notte, mezzo brillo, usciva dallo studio e sparava in aria, terrorizzando i passanti. E di Jacob che, convertitosi al cattolicesimo, giustificava la propria omosessualità dicendo: «Il Cielo mi perdonerà: sono piaceri che sa non dipendere dalla mia volontà». Una volta Max, arrivato ubriaco al funerale della giovane Marcelle Humbert, per la quale Picasso aveva soppiantato Fernande Olivier, cercò di sedurre l’autista del carro funebre.
Ben presto a Picasso e Jacob si aggiungono Alfred Jarry, Maurice Vlaminck e André Derain. Poi Apollinaire comincia a scrivere d’arte. Nella Parigi inizio secolo chi sono i quattro grandi cubisti? Il mercante Daniel-Henry Kahnweiler non ha dubbi: Braque, Picasso, Gris e Léger. E il più grande cronista del cubismo? Guillaume Apollinaire, appunto.
Gli amici lo considerano un magnifico poeta e un pessimo critico. Picasso: «Sente, ma non sa». Braque: «Non capisce nulla e confonde Rubens con Rembrandt». Vlaminck: «Incompetente, anche se possiede la verve di un fantasista». Juan Gris: «Le sue idee non sono altro che le nostre risposte alle sue domande». Comunque sia, il «giornalista» Apollinaire difende le avanguardie a tutti i costi (usa per primo il termine «surrealismo») e i suoi Calligrammi sono «la faccia letteraria delle invenzioni pittoriche».
Il Cubismo non ha vita facile. Apollinaire coinvolge un medico, il dottor Artaud, il quale dichiara che «i cubisti soffrono di emicrania perché hanno battuto la testa». Guillaume esercita una grande attrattiva fra i pittori contemporanei, sia perché è considerato l’«erede» di Baudelaire e Mallarmé, sia perché le avanguardie trovano in lui un grande difensore.
Anche se espressioni di un poeta, fra il 1902 e il 1918, le sue cronache d’arte diventano eccezionali testimonianze di gusti e movimenti d’una Parigi in continua trasformazione. Certo, scrive di Picasso, Matisse e Chagall, ma anche dell’arte africana e oceanica, del Futurismo di Marinetti e della Metafisica di De Chirico, di Vlaminck e della Laurencin, di Delaunay e di Archipenko, e così via. Ed è proprio questo aspetto che evidenzia la mostra parigina Apollinaire: lo sguardo del poeta , al Museo dell’Orangerie (sino al 18 luglio).
Apollinaire muore nel 1918, a soli 38 anni, per l’influenza «spagnola». È Giuseppe Ungaretti — che casualmente passa da casa sua — a trovarlo in fin di vita e a farlo ricoverare all’ospedale italiano. Niente da fare.
Con la vendita di due opere di Matisse e Picasso viene pagato il monumento menhir, progettato dal suo grande amico spagnolo, al cimitero parigino di Père Lachaise.