Repubblica 20.4.16
L’acciaio europeo alza bandiera bianca per la bolla cinese
Pechino produce troppo: prezzi al tappeto Dal Galles all’Ilva molti impianti a rischio
di Roberto Mania
Nel
Vecchio Continente persi in 4 anni 50.000 posti. E la Ue pensa a più
flessibilità nella valutazione degli aiuti statali alla siderurgia
La
Cina produce la metà dell’acciaio mondiale: 820 milioni di tonnellate
su un totale di oltre 1,6 milioni I produttori cinesi hanno incrementato
l’export abbassando i prezzi fino al 40%
Per difendersi gli Usa
hanno alzato le barriere doganali La Ue (nella foto il commissario
Bie?kowska) ha già aperto 16 procedimenti e 5 investigazioni
anti-dumping
ROMA. Tutta colpa degli ammortizzatori
sociali che la Cina ancora non ha. Perché se il gigante asiatico avesse
la cassa integrazione o l’indennità di disoccupazione non avrebbe
bisogno di continuare a produrre tonnellate di acciaio che i mercati non
chiedono più, a cominciare proprio da quello cinese. Se smettesse di
produrre, però, milioni di lavoratori verrebbero licenziati. Un impatto
sociale drammatico che Pechino, con il suo welfare state ancora
primordiale, non può affatto permettersi. Ci vuole tempo. Questo è il
paradosso della nuova guerra dell’acciaio che schiaccia l’Europa, fa
tremare la stessa Cina alla ricerca di un altro modello di sviluppo,
rilancia il protezionismo economico e ridisegna, infine, gli equilibri
nella siderurgia mondiale. Questa è la guerra della sovraccapacità
produttiva e dei prezzi stracciati (con sconti fino al 40%).
A
Port Talbot, in Galles, sta cadendo la prima vittima. Lì ci sono le
acciaierie di Corus, nate dalla fusione tra British Steel e l’olandese
Koninklijke Hoogovens. Nel 2007 le comprò il colosso indiano della
famiglia Tata. C’era in quell’acquisto anche la voglia di rivalsa
dell’ex colonia che entrava dentro le viscere dell’ex impero, visto che
dal punto di vista industriale fu un’operazione che lasciò sempre
perplessi per la scarsa efficienza di quell’impianto. Oggi perde un
milione di sterline (più di 1,2 milioni di euro) al giorno. Rischiano di
saltare 15 mila posti di lavoro diretti e altri 60 mila nell’indotto.
Un cataclisma che sta facendo riparlare di nazionalizzazione
dell’acciaio nel paese che fu anche di Margaret Thatcher.
Pure
l’Europa – che in quattro anni ha perso circa 50 mila posti di lavoro
nelle acciaierie - è scesa in trincea. Ieri la commissaria del Mercato
interno, la polacca Elzbieta Bienkowska, ha rotto un tabù: in
un’intervista alla
Frankfurter Allgemeine Zeitung ha detto che si
deve «discutere sulla possibilità di rendere più flessibile la
valutazione sugli aiuti statali». Insomma per salvare la siderurgia
europea dall’assalto cinese si potrebbe far ricorso ai pubblici denari.
Fine del mercato.
I cinesi sono i nuovi padroni dell’acciaio.
Acciaio low cost, ma non solo. Tra i primi cinquanta gruppi mondiali ce
ne sono 27 cinesi, soltanto cinque sono europei (fino al 2012, prima
dello scandalo dell’Ilva, i Riva erano al secondo posto in Europa). È di
due giorni fa la notizia che il gruppo cinese He Stell si è comprato
anche l’acciaieria serba di Smederevo per farne la più competitiva del
Vecchio Continente. La Cina produce la metà dell’acciaio mondiale: 860
milioni di tonnellate su un totale di circa 1665 milioni. Al vertice
della classifica dei maggiori produttori la sfida è tutta asiatica: il
secondo posto è del Giappone, il terzo dell’India, il sesto della Corea
del Sud. Gli Stati Uniti che hanno alzato le barriere doganali per
difendersi dall’accerchiamento asiatico e diventare un mercato regionale
dell’acciaio, sono al quarto posto. Tra i primi dieci paesi produttori
ce n’è uno solo europeo, la Germania. L’Italia - che dall’inizio della
crisi ha perso nella siderurgia oltre 4.000 addetti - è undicesima.
«Se
l’appetito dei consumatori è cambiato non è colpa di chi produce il
cibo», ha detto lunedì scorso a Bruxelles il viceministro cinese del
Commercio Zhanh Ji al termine di una riunione convocata dall’Ocse
proprio per cercare di cominciare a fronteggiare – senza risultati per
ora - l’inondazione di acciaio cinese nei mercati mondiali. La colpa,
insomma, sarebbe della crisi e della lunga successiva stagnazione.
Certo, ma non solo. Per la prima volta dal 1996, nel 2014 la domanda
cinese di acciaio è calata del 3,4%. In questo dato c’entra meno la
crisi mondiale e c’entra di più il cambiamento di paradigma nello
sviluppo dell’economia cinese. È in atto una trasformazione: da
un’economia trainata dagli investimenti infrastrutturali (dalle
autostrade alle abitazioni) dove è fortissima la componente di acciaio, a
un’economia basata sui consumi. Un turnaround, con conseguenze anche
sulle dinamiche del Pil, con effetti diretti su tutto il mondo. Perché
la “nuova” Cina assorbe meno acciaio, ma continua a produrne tantissimo e
lo vende all’estero abbassando i prezzi. Tra il 2015 e il 2014 il calo
della domanda globale è stato intorno ai 37 milioni di tonnellate, e ben
35 erano cinesi. Questa è la novità. Secondo le ultime previsioni della
World Steel Association il consumo cinese di acciaio continuerà a
scendere, del 4% nel 2016 e ancora del 3% nel 2017, mentre la domanda
globale dovrebbe calare quest’anno dello 0,8% e risalire l’anno
successivo dello 0,4%. Il governo cinese ha promesso una riduzione
produttiva di 100-150 milioni di tonnellate nei prossimi cinque anni, ha
detto che taglierà 500 mila posti nella siderurgia, ha stanziato oltre
15 miliardi di dollari per trasferire i lavoratori in esubero in altri
settori. Ma intanto i forni europei rischiano di spegnersi adesso.