Repubblica 20.4.16
Testimoni intimiditi e avvocati superstar ecco Mafia capitale il processo dimenticato
Dopo sei mesi di udienze non ne parla più nessuno. Non fa notizia neanche alla vigilia delle elezioni a Roma
di Attilio Bolzoni
ROMA.
Chi se lo ricordava più lo “Spezzapollici”? Se non l’avessimo visto
nella cella numero 3 che ridacchiava con l’ex consigliere della Regione
Luca Gramazio, dopo tutto questo tempo e con quel nome che si ritrova lo
avremmo potuto scambiare per un minaccioso personaggio dei fumetti.
Spez-za-pol-li-ci. E invece Matteo Calvio, tirapiedi di Carminati, uno
dei 46 imputati di Mafia Capitale, era davvero lì nel bunker di
Rebibbia, con tutta la sua muscolatura gonfiata dagli anabolizzanti e
con la testa incastrata fra le sbarre per presenziare alla
cinquantunesima udienza di un processo che nel silenzio più inquieto sta
facendo tremare la città dove «la mafia non c’è».
Sono passati meno di sei mesi dalla “prima” del 5 novembre del 2015, avvenimento salutato dalla
France Presse
con
un titolo che raccontava molto: «La justice italienne ouvre le procès
des bas-fond de Rome». I bassifondi di Roma: principi dell’usura e
dell’estorsione insieme a imprenditori di alto rango, ras delle
cooperative, funzionari del Campidoglio, irreprensibili uomini politici
rossi e verdi e neri tutti insieme là sotto a corrompere o a intimidire,
intascare mazzette, trafficare con gli appalti e coi migranti. Sono
passati meno di sei mesi e sembra un secolo. Che fine ha fatto il
maxiprocesso di Mafia Capitale? Come sta andando? Gli avvocati sono
riusciti a smontare le tesi della procura di Pignatone? Le
corrispondenze dall’aula bunker sono tutte esiliate nelle pagine locali
dei quotidiani, la voce della difesa il più delle volte è riportata
sempre più alta e imperiosa di quella dell’accusa. Abitudini romane.
Per
qualche giorno (ed eravamo alla vigilia dell’intervista di Vespa al
figlio di Totò Riina) anche le telecamere della Rai hanno disertato le
udienze impedendo a tutti — la rete pubblica era l’unica autorizzata a
riprendere le fasi del dibattimento con l’obbligo di girarle
gratuitamente alle altre emittenti — di scoprire cosa stava accadendo a
Rebibbia. Un processo dimenticato. Mafia Capitale non fa «notizia»
neppure (o forse proprio per questo) quando manca qualche settimana per
scegliere il sindaco di Roma.
Mattina del 18 aprile 2016: gli
avvocati e i loro assistenti sono 37, i detenuti rinchiusi 13,
partecipanti fra il pubblico 9 (tutti familiari degli imputati), 12
quelli a piede libero o agli arresti domiciliari con permesso di
assistere al dibattimento, 3 giovanissimi e diligenti cronisti
giudiziari, un cameraman, nemmeno un curioso o uno sfaccendato dietro le
transenne.
Nessuno fa più neanche caso a quelle tre sagome che
sono in posa perenne sui maxischermi. Collegamento in video conferenza
da Tolmezzo: «Salvatore Buzzi, presente». Collegamento da Terni:
«Riccardo Brugia, presente ». Collegamento dai bracci del 41 bis di
Parma: «Massimo Carminati, presente». Buzzi è sempre chino sul suo
tavolaccio a scrivere e ogni tanto a dire politicamente la sua: «Hanno
arrestato solo quelli di area Bersani e non quelli di Renzi». Brugia è
sempre seduto. Er Cecato, sempre in piedi e a braccia conserte,
impassibile. Ha perso la calma solo la mattina del 21 marzo quando è
sfilato come teste Luigi Seccaroni, il titolare di un autosalone che per
terrore ha smentito se stesso. Minacce? «Carminati e Brugia erano solo
ottimi clienti». Paura? «Ero depresso». Estorsioni? «Ma no, sconti, i
carabinieri mi hanno interpretato male». Una falsa testimonianza che ha
agitato assai Carminati e fatto fare Bingo all’accusa. Una deposizione
così ricca di «non ricordo» è rintracciabile solo in qualche udienza
palermitana degli anni ’70, quando i testimoni se la facevano sotto
anche per sussurrare un nome. Ha balbettato pure Alessandro Zanna, un
piccolo commerciante che era così spaventato di essere lì che non voleva
dare al cancelliere neanche l’indirizzo di casa. E poi l’imprenditore
Filippo Maria Macchi, vittima di un tasso usuraio del 400 per cento. La
prima volta a Rebibbia non c’è andato perché «aveva affari a Milano», la
seconda volta perché «era morto un parente » (non era vero, il
familiare è vivo e vegeto), la terza volta — proprio ieri mattina — a
Rebibbia l’hanno “accompagnato” i carabinieri. Il Tribunale ha capito
che era stato intimidito e lui, difronte a inequivocabili
intercettazioni, ha dovuto ammettere quello che non si sarebbe mai
augurato di ammettere. Il presidente Rosanna Iannello durante l’esame di
Macchi ha disposto che lo schermo fosse spostato, così che lui non
potesse vedere Carminati nemmeno via cavo. Non ce l’ha fatta a
nascondere il panico. E perché mai, se a Roma la mafia non esiste?
Come
era annunciato, la partita processuale si gioca sui confini del 416
bis. Da una parte i pubblici ministeri — sempre in aula Luca Tescaroli, a
turno Giuseppe Cascini e Paolo Ielo — dall’altra un esercito di
penalisti grandiosamente schierato, segno evidente di quanto gli
avvocati abbiano compreso la «diversità» di questo processo rispetto al
passato. Sono spiazzati, confusi. E attaccano su tutti i fronti con lo
scopo di demolire un’indagine “drogata” che fa apparire una mafia che
non è mafia («È solo corruzione ») in certi momenti con il codice alla
mano, in altri più rumorosamente con l’avvocato Giosué Naso. Un paio di
mesi fa ha insultato Lirio Abbate, autore di un’inchiesta su i Re di
Roma, chiamandolo «Delirio» e ha continuato sproloquiando contro il
procuratore Pignatone. Un paio di settimane fa, prima ha aggredito
verbalmente alcuni ufficiali del Ros sul banco dei testimoni e poi dato
lezioni di tecnica investigativa al loro comandante. Naso si muove come
un matador nell’arena. Un brutto colpo è arrivato però l’altra
settimana: il Tribunale ha deciso di prorogare i termini di custodia
cautelare, gli imputati resteranno agli arresti sino alla fine del
processo. Indizio non rassicurante. Meno male che in questi ultimi
giorni è sceso in campo anche Il Dubbio, quotidiano che ha come editore
il consiglio nazionale forense. Il primo scoop: le «confessioni» in aula
del colonnello dei carabinieri Stefano Russo: «Così abbiamo organizzato
lo show per Mafia Capitale». Peccato che, in aula, il colonnello abbia
parlato d’altro.