Repubblica 20.4.16
L’uomo solo al comando dei beni culturali italiani
di Salvatore Settis
SCADONO
il 23 aprile i termini del bando interno per la nuova Direzione
Generale “Archeologia, Belle Arti e Paesaggio”, che fonde in una tre
direzioni generali: tappa ulteriore della riforma Franceschini, che
sarebbe stato assai meglio lanciare tutta insieme come un disegno
organico, e non a puntate come un fotoromanzo o uno sciame sismico. Chi
difende quest’ultima decisione del ministro richiama antichi precedenti
(Bianchi Bandinelli direttore generale alle Antichità e Belle Arti dal
1945 al 1948), o sbandiera una concezione “olistica” del ministero. Ma
chiamare “olistico” l’intatto arcipelago delle altre dieci direzioni
generali sfida non solo l’etimologia, ma il buon senso. Se è giusto
avere una direzione per gli archivi e una per le biblioteche, una per il
cinema e una per lo spettacolo, perché accorpare archeologia e storia
dell’arte? Ma a riforma fatta, è dovere civico (proprio come votare,
anche nei referendum: Costituzione, articolo 48) sperare che non tutto
vada storto. La verità è che Franceschini ha imposto, a se stesso prima
che al ministero, la mission impossible di accorpare in uno tutte le
funzioni di tutela sul territorio, dall’archeologia preventiva ai reati
contro il paesaggio, dai centri storici agli affreschi, dalle cattedrali
alle statue nelle piazze. Giusto o sbagliato che sia, farlo con
scarsissimo personale, governando al tempo stesso la simultanea
creazione di “soprintendenze uniche”, con l’archeologia guidata da
architetti (e viceversa), richiederà abilità acrobatiche, o piuttosto
taumaturgiche. È vero che si annuncia, dopo decenni, un concorso per 500
nuovi addetti ai lavori, ma «il personale, con una età media di 54
anni, ha carenze di organico per oltre 1000 posti», come scrive il
consigliere giuridico di Franceschini, Lorenzo Casini, nel suo recente
Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale (Il Mulino); una
carenza che aumenta ogni giorno, per pensionamenti e abbandoni “da
scoraggiamento”.
A chi toccherà pilotare «in gran tempesta» la
navicella della tutela in uno scenario politico sempre più distratto?
Una decina di alti funzionari del ministero hanno titolo a concorrere, e
lo sterminato decreto che fissa i criteri per la scelta del super-
direttore generale traccia il profilo desiderato. Dev’essere in grado di
reggere la «complessità della struttura interessata » (massima, visto
che è l’Italia tutta), avere adeguate esperienze sul campo (di natura
amministrativa e giuridica, con speciale riferimento alla normativa di
tutela, dal Codice alle norme più recenti, come l’archeologia
preventiva), capacità organizzativa (dimostrata nel reggere altre
direzioni generali e direzioni regionali). Il nuovo direttore non dovrà
emettere di quando in quando una qualche fatwa in favore o contro
oleodotti o Tav: dovrà, in una fase delicatissima di riorganizzazione
del ministero, quotidianamente approntare ed emanare (in sintonia con il
ministro) un gran numero di regolamenti, circolari e norme applicative.
Dovrà dunque avere una conoscenza di prima mano del Codice dei Beni
Culturali e del paesaggio. Dovrà vegliare a che la tutela sul territorio
nazionale non scenda sotto il livello di guardia, e avere esperienze
anche sul fronte della valorizzazione. Dovrà sorvegliare l’equilibrio
fra tutela e valorizzazione, funzioni che in Italia e solo in Italia
sono artificiosamente separate da pochi decenni, e che devono convergere
alla radice (ricerca e conoscenza) e al punto d’arrivo (la fruizione da
parte dei cittadini). Dovrà essere in grado di seguire da vicino le
criticità della legge Madia, e in particolare la normativa sulla
conferenza dei servizi, su cui hanno giustamente attirato l’attenzione
l’Osservatorio Nazionale per la qualità del paesaggio e il
Sottosegretario Ilaria Borletti-Buitoni. Dovrà negoziare con le regioni i
rispettivi piani paesaggistici (quasi tutti in enorme ritardo),
sapendoli valutare nel merito e nella forma giuridica. E questo
identikit dovrebbe includere anche una professionalità tanto solida da
essere indipendente dalle pressioni della politica, o ancora la capacità
di dialogo con i titolari di grandi collezioni private (la cui tutela
spetta allo Stato).
Dal nuovo direttore generale dipenderà il
futuro immediato del paesaggio e del patrimonio in Italia (cioè il
rispetto dell’articolo 9 della Costituzione). Se il ministro sceglierà
una persona adeguata alla funzione delicatissima che ha voluto creare,
saremo in molti ad essergli grati. Se invece dovesse collocare in quella
posizione un funzionario debole, incerto, incapace di seguire la
straordinaria complessità dei compiti che lo attendono, darà ragione a
chi sostiene che la raffica di riforme è intesa non a rafforzare, ma a
indebolire la tutela.