Repubblica 20.4.16
Lo scontro sulle riforme
di Massimo L. Salvadori
ORA
che la Camera ha licenziato la riforma della Costituzione, e che si è
svolto con l’esito che si è visto il referendum sulle trivelle, divampa
lo scontro — la cui principale tappa intermedia saranno le elezioni
amministrative — in vista del referendum che la riforma dovrà approvare o
bocciare. Uno scontro che induce gli oppositori a esprimersi con toni
furiosi, poiché la riforma, unitamente all’Italicum, è considerata
l’anticamera di un attacco alle istituzioni democratiche di cui Renzi è
l’ispiratore.
All’interno del sistema partitico ufficiale fondato
su un variegato pluralismo è sorto un secondo sistema bipolare, il quale
contrappone un “partito antirenziano” — che unisce tutti i nemici delle
riforme volute dal governo nel denunciare il novello Cesare,
distruttore della Repubblica — al “partito renziano”. È stato appunto
obbedendo alla solidarietà che li lega, al di là di quanto li divide,
che Movimento 5Stelle, Forza Italia, Lega, Sel, Sinistra Italiana hanno
insieme abbandonato l’aula della Camera al momento del voto finale sulla
riforma costituzionale per rendere più solenne possibile la protesta
dei veri democratici. La minoranza Pd ha votato a favore, ma subito dopo
per bocca di Gianni Cuperlo ha provveduto a togliere con una mano
quello che, obtorto collo, aveva concesso con l’altra, affermando che
nulla è scontato in vista del referendum costituzionale, che l’Italicum è
un vulnus a una sana rappresentanza parlamentare e alle buone ragioni
di una sinistra che dovrebbe rimanere fedele ai principi che ispirarono
l’Ulivo. Cuperlo sostiene che Renzi non ha la statura di un leader, è
piuttosto «un capo» ambizioso e prepotente; lo ha persino dipinto come
un «sovrano». E a battere sulla testa di Renzi vi sono anche Speranza,
Emiliano (che ha inneggiato al compatto popolo antirenziano uscito dalle
urne di domenica scorsa) e gli altri della minoranza Pd. Vengono in
mente, nel guardare alle reazioni alla nostra riforma istituzionale ed
elettorale, quelle che si ebbero in Francia con il passaggio dalla IV
alla V Repubblica. I contrari (tra questi vi era anche Mitterrand)
gridarono nientemeno che all’avvento del fascismo; ma in Francia non
successe nulla di tutto ciò e Mitterrand, eletto presidente, si acquietò
contento.
Nel dibattito sulla riforma, gli oppositori, specie
della minoranza Pd, hanno liquidato come bagatelle i richiami alle
riserve critiche di coloro — i Dossetti, i Terracini, i Calamandrei, i
Valiani — i quali all’Assemblea Costituente ammonirono che si andava
preparando un meccanismo che avrebbe prodotto una dannosa instabilità
istituzionale (come confermato dal numero di governi succedutisi dal
1948 in avanti). Merita ricordare che i socialisti e i comunisti si
dichiararono in un primo tempo contrari al bicameralismo. Calamandrei e
Valiani erano favorevoli alla repubblica presidenziale. Il primo
insistette che è l’instabilità delle istituzioni e dei governi a
spianare la strada ai governi autoritari.
Ma veniamo ad un’altra
importante questione: la reiterata dichiarazione di Renzi che, se il
referendum popolare cancellasse la riforma costituzionale, si
ritirerebbe. Giusto o sbagliato? Renzi motiva il suo impegno con
l’argomento che, quando un capo di governo e un leader di partito perde
la battaglia su un punto che giudica cruciale per il proprio Paese, il
suo dovere e il suo senso di responsabilità gli impongono di lasciare le
redini in quanto delegittimato. Contro questa linea, la minoranza Pd
leva la sua protesta: Renzi vuole un plebiscito a favore o contro di
lui. Sia consentito di notare che la posizione sembra viziata da
un’intima contraddizione. Non si può per un verso personalizzare la
lotta contro un leader e per l’altro lamentare che questi consideri il
referendum come una prova di legittimazione o delegittimazione
personale. E poi: sono i capi autoritari, i “sovrani”, che, quando il
popolo si esprime contro di loro danno torto al popolo e non a se stessi
e fanno ogni cosa per rimanere attaccati alla poltrona.
Il
referendum che da noi si terrà non presenta in alcun modo le
caratteristiche di un plebiscito in cui il popolo è portato come un
gregge alle urne a pronunciare un sì o un no su quanto deciso da un
gruppo di gerarchi e da un dittatore. Renzi fa bene a dire agli
italiani: se bocciate il progetto che il governo vi sottopone, ciò
significa che non avete fiducia in esso e in chi lo guida, e perciò
sgombro il campo.
In tema di Italicum, in relazione alla tesi
secondo cui questo altererebbe inaccettabilmente i meccanismi della
giusta rappresentanza, vale ricordare che in Gran Bretagna, patria della
democrazia liberale, il sistema elettorale ha tradizionalmente
consentito, in nome dell’efficienza e della stabilità dei governi, anche
alle minoranze di ottenere la maggioranza parlamentare. Potrà piacere o
meno un tale sistema, ma nessuno in Gran Bretagna ha gridato al
cesarismo. Quando i governi si reggono su un accorpamento di partiti
poco omogenei o addirittura disomogenei, si dà inevitabilmente —
l’esperienza italiana insegna — proprio ai minori di essi, a quelli cioè
che rappresentano anche solo piccole frazioni dell’elettorato, abnormi,
indebite “rendite di posizione” e al limite il potere di decretare la
vita o la morte degli esecutivi e dei parlamenti.