Repubblica 1.4.16
La forza di rischiare e saper ricominciare
di Carlo Olmo
Chi
domani entrerà al Maxxi a Roma, al London Acquatics Centre, alla
Stazione della Funicolare di Innsbruck guarderà questi edifici strani,
improbabili e pieni di fascino con occhi diversi. La morte trasforma
opere molto discusse, a volte molto criticate, inizialmente in
intoccabili simulacri, per poi spesso precipitarle nell’oblio. Eppure
domani l’omaggio migliore a un architetto dalla storia improbabile, lo
renderanno i visitatori qualunque che, magari non sapendo neanche della
sua morte, visiteranno o, ancor meglio, utilizzeranno quegli edifici.
Perché un’architettura esiste e rimane nell’immaginario dei cittadini,
se il suo uso è quasi scontato. Certo è ancor più paradossale pensarlo
per le opere di Zaha Hadid. Non solo perché ha percorso tutti i passi
della strada, non certo lastricata solo di encomi, delle archistar:
dall’insegnamento nella scuola europea più venerata, l’Architectural
Association, al premio Pritzker. E neanche perché le sue opere segnino,
con una volontà di forma quasi esasperata, piccole città come Jesolo o
metropoli come Hong Kong.
Oggi il Maxxi come la Biblioteca
Universitaria di Siviglia sono architetture frequentate e vissute anche,
se non soprattutto, come spazi pubblici, come luoghi di incontro, come
isole di urbanità in realtà cittadine che stanno perdendo la capacità di
sorprendere i propri abitanti con l’incontro inatteso. E questo
nonostante la forma che Zaha Hdid ha dato a queste, come ad altre
architetture, sia fatta per colpire l’attenzione e la fantasia degli
utenti. Contraddizione felice per un architetto che utilizzava disegno e
pittura per studiare, provare e immaginare le sue opere e poi
sperimentava le risorse di un’informatica ormai necessaria e omologante
come mai nessuna “tecnica” è stata nella storia dell’architettura. Ma
quei segni così forti non erano solo il frutto di una modellistica
matematica in grado di sfidare le leggi della fisica, spesso con l’aiuto
di una scienza dei materiali che ha saputo usare come pochi altri. Le
sue non erano prove muscolari di una nipotina di Nietzsche nata a
Bagdad. Zaha Hadid ha portato la sua ricerca sempre ai limiti di un
gusto che forse non esiste più, ma che condanna chi lo sfida per un
gioco puramente intellettuale. Come per altri figli di una generazione e
di un contesto ricco di suggestioni — Londra dal 1972, il lavoro con
Koolhaas, Zenghelis e Tschumi, OMA e il suo continuo gioco tra la
capacità di raccontare la città contemporanea, il saper affascinare
clienti e committenti — Zaha Hadid ha trovato un suo equilibrio tra
esaltazione della tecnica e volontà formale non prestissimo. Un
equilibrio difficile, perché passare dall’invenzione alla bizzarria,
dall’interpretazione di una contemporaneità alla pura apparenza senza
canoni, ma con regole industriali, costruttive, persino linguistiche
feroci, era facilissimo.
In questo mondo, l’ha accompagnata un
personaggio influente e poco conosciuto, Peter Rice, che già a aveva
fatto da Pangloss a Renzo Piano e Richard Rogers. Ma, insieme alla
capacità di creare spazi che la gente vive, anche quando non sono
felicissimi come il Burnham Pavillon a Chicago o la stazione marittima
di Salerno, a evitare il più mortale dei rischi che corrono la sua
generazione e i suoi colleghi archistar — il manierismo di se stessi —
l’ha aiutata il ricominciare sempre da capo. Zaha Hadid non è mai caduta
nello specchio di un narcisismo formale e decadente che segna purtroppo
lo scenario internazionale e i paesaggi metropolitani contemporanei,
oltre che macchiare le brillanti uniformi di tante archistar
contemporanee e soprattutto di chi aspira ad appartenere a quel mondo.
L’assenza di codici condivisi da scuole o da comunità di architetti, il
progressivo disfarsi dei canali che formavano il consenso, ma
garantivano, anzi costruivano il dissenso, come le riviste di
architettura, non l’ha portata a far delle sue opere i modelli da
imitare: ha rischiato e oggi il rischio intellettuale è merce rara. Il
suo è stato un diritto di cittadinanza conquistato in un universo
sociale e professionale che era il più internazionale e il più chiuso.
Gli architetti sono davvero animali di un circo segnato da regole
spietate e chiuso alle donne: anche se oggi per fortuna è sempre meno
così. E forse per questo ancor più dispiace che Zaha Hadid ci abbia
lasciato: da Pangloss poteva e doveva ormai farlo lei.
L’autore insegna storia dell’architettura al Politecnico di Torino e ha fondato “ Il giornale dell’architettura”