venerdì 1 aprile 2016

Corriere 1.4.16
Daniel Libeskind
«Insegnava ai giovani: partite dal pensiero»
intervista di Giacomo Valtolina

Dapprima una «studentessa interessante», poi una «modernista mai nostalgica» nonché un’«amica inattesa» e un’«artista dinamica che ha reso Milano e l’Italia più ricche». Un «esempio per le donne» e, infine, da ieri, anche una «stella proiettata verso il cielo». L’archistar Daniel Libeskind risponde al telefono e quasi ringrazia di poter dare il suo contributo alla memoria della «collega e amica». Conosceva Zaha Hadid da oltre quarant’anni, per la precisione da quel ‘70/71 scolastico quando ne sentì parlare per la prima volta tra i corridoi dell’Architectural association di Londra, dove lui era unit master , un insegnante, e lei soltanto una giovane promessa già capace di far parlare di sé.
Può raccontare la prima impressione che le suscitò?
«Era un grande talento, produceva lavori interessanti, gli altri studenti e i professori conoscevano i suoi disegni; se ne discuteva. Era fuori dagli schemi e sapeva correre rischi. Come me, Zaha ha iniziato a lavorare dalla teoria, dalle idee, con la matita in mano e la mente aperta. Non ha lavorato da subito come accade al giorno d’oggi. E questo credo sia il suo più grande insegnamento ai giovani architetti: partire dal pensiero. Oggi ( ieri, ndr ) è un giorno davvero molto triste, sono scioccato e devastato».
Zaha Hadid viene descritta come una donna austera.
«Era una personalità dal carattere indubbiamente forte, con un fascino unico. È stata fonte di ispirazione per le donne ma anche per molti uomini nel mondo dell’architettura, costruendosi il suo ruolo nel settore quando le progettiste stavano nelle retrovie. Ma aveva un cuore morbido, tipico delle sensibilità artistiche».
C’è un episodio che ne sintetizza la personalità?
«Eravamo rivali a un piccolo concorso londinese della Metropolitan University. La sua presentazione avvenne subito dopo la mia. Lei entrò e a un certo punto... crash! Sentimmo il rumore di uno schianto. Aveva infranto il suo stesso plastico contro il muro, stizzita per le domande futili dei professori che la giudicavano. Il modellino era al suolo, in mille pezzi, completamente distrutto. Lei era fatta così...».
E quale opera fa emergere al meglio la sua filosofia?
«Credo che il suo linguaggio sia chiaro fin dalla sua prima opera, la Vitra fire station di Weil am Rhein, in Germania ( del 1993, ndr ): uno stile deciso, dalla firma chiara, subito riconoscibile, che si trattasse di un tavolo, un piccolo pezzo di design o un grattacielo. Era una modernista senza ombre di nostalgia. Amava gli spazi di espressione mossi, dinamici e le forme curve. La tecnologia e il potere dei computer. Era un talento coerente e visionario. Con lo sguardo rivolto sempre in avanti, verso il futuro».
Dal Maxxi di Roma allo «Storto»: che rapporto aveva con i suoi lavori «italiani»?
«Era sempre molto attenta alla storia. Conosceva i grandi architetti italiani, ammirava Giovanni Michelucci e il designer Joe Colombo. Amava i maestri del cinema e dell’arte italiana, così come era attratta dalle eccellenze milanesi, moda e design. Grazie al suo grattacielo «Storto» (ancora in costruzione: assieme al «Curvo» dell’architetto americano e al «Dritto» di Isozaki compone il progetto sulle aree dell’ex fiera CityLife, ndr ), Milano e l’Italia saranno più ricche. Insieme con il Maxxi, è uno dei suoi lavori più rappresentativi».
Quali sono state le ultime parole scambiate tra voi?
«L’avevo sentita qualche mese fa, all’indomani della bocciatura del suo progetto giapponese per il nuovo stadio di Tokyo. Ero arrabbiatissimo, e lo era anche lei. L’avevo trovata in forma. Mai avrei pensato che sarebbe stata la nostra ultima conversazione».