venerdì 1 aprile 2016

Repubblica 1.4.16
Torna in libreria con una nuova introduzione il romanzo filosofico di Eugenio Scalfari
L’uomo perso nel suo eterno labirinto
di Paolo Mauri

Un verso, un verso dantesco, mi è tornato alle labbra mentre leggevo “Il Labirinto”di Eugenio Scalfari: un romanzo uscito quasi vent’anni fa e ora riproposto con una nuova introduzione. Il verso sta nel Paradiso e dice: «prende l’image e fassene suggello». L’immagine è quella del labirinto e diviene dunque il suggello o sigillo di una narrazione che vuole essere specchio del vivere, ovvero indagine sul significato della vita e della morte, integrandosi perfettamente nella riflessione che l’autore va facendo da molti anni e pubblicamente fin dal ’94, anno di uscita di “Incontro con io”. Ma perché scegliere la via del
romanzo dopo aver sperimentato la via del saggio? In realtà Scalfari, in qualunque veste scriva, è sempre un eccellente narratore e persino quando discute un concetto sfumato come la fine della modernità non esita, per esempio, a mettere in scena un suo dialogo con Diderot. Comunque la narrazione permette, se mi si passa l’immagine, di vestire di carne i pensieri e di porli nella mente di un preciso personaggio, lasciandogli poi un po’ di briglia sciolta, perché i personaggi son fatti così e spesso sono sorprendenti anche per chi li crea.
Dunque il labirinto. Ce lo portiamo dietro da millenni, ma, avverte Scalfari nel prologo, non è necessario pensare a Minosse, Teseo e Arianna. Il labirinto è sopravvissuto a loro, è diventato un emblema a sé stante e lo possiamo persino trovare, l’esempio lo fa Scalfari stesso, in un baraccone di un luna park dove il visitatore si perde tra gli specchi deformanti.
Scalfari tenta dunque una lettura dell’enigma uomo e apparecchia una immensa casa abitata da una famiglia molto ampia, di oltre settanta persone, i Gualdo, con un patriarca che si chiama Cortese, un figlio di lui, Stefano, e un nipote, Andrea. Ci sono molti altri Gualdo nella casa che affaccia da un lato verso la marina e dall’altro sulla campagna e alcuni il lettore li incontrerà nelle pagine del romanzo. Che è, possiamo dirlo subito, un romanzo fortemente simbolico nel senso che i protagonisti non hanno bisogno di vivere una storia: essi sono per quello che sono, si autorappresentano. Certamente, nel progettare la casa-labirinto dei Gualdo, Scalfari ha avuto in mente la casa della sua famiglia in Calabria, tra l’altro, come narra nel
Racconto autobiografico scritto per il Meridiano che raccoglie parte delle sue opere, un suo quadrisavolo si chiamava proprio Cortese. E non trascurerei neppure l’influsso letterario di un’altra illustre dimora: quella del Gattopardo.
Cortese Gualdo è, a suo modo, un Gattopardo, capo di una famiglia benestante e autosufficiente, perché il labirinto nel quale questa famiglia vive è un regno tranquillo, immobile nel tempo, legato com’è ad una solida economia rurale. Siamo ai primi del Novecento, ma il tempo storico conta poco: il mondo è fuori e quasi non se ne hanno notizie. Il vero labirinto, lo si intuisce subito, non è solo quello costituito dalla casa e con le sue mille articolazioni, scale, anfratti, il vero labirinto è dentro i personaggi: sta, ancora una volta, nella decifrazione o scomposizione dell’Io. Del resto, scrive Scalfari nell’introduzione a questa nuova edizione del suo romanzo, «Il labirinto non è altro che il groviglio di contraddizioni che vivono dentro di noi, alimentano la nostra vita, la rendono felice e infelice». E molti dei Gualdo erano portati all’introspezione, altri ad osservare la vita fuori di sé. Dunque Il Labirinto è un romanzo filosofico e i personaggi sono funzionali alle domande di fondo alle quali l’autore cerca una risposta. L’ottantenne Cortese Gualdo è un uomo appagato che vuol delibare fino in fondo i piaceri della vita. Per questo si veste, per cenare con il figlio Stefano, come un Grande di Spagna; per questo accetta volentieri che una compagnia di guitti si fermi sulle sue terre e si esibisca nella casa. Nella cena consumata con il figlio Stefano, che è invece introverso e solitario, per quanto il padre ama la compagnia e il gioco, il tema è di nuovo filosofico: la felicità. Se il romanzo contemporaneo nel suo lungo percorso forse declinante predilige ormai i piccoli sistemi, il quasi nulla della quotidianità, possiamo dire che Scalfari va volutamente controcorrente e punta invece ai massimi sistemi, mettendo in scena la Ragione che discetta e fa ricorso volentieri a pagine antiche: Alceo, Platone e poi ancora Agostino, Nietzsche, Shakespeare e Villon. La compagnia di attori detta dei lunatici che chiede asilo ricorda l’Amleto e credo sia una citazione voluta. Mascherare, smascherare, essere, non essere… Che cosa accadrà in una mente colpita dalla follia? È una delle indagini che il romanzo si propone: Daniele, figlio di Stefano, è il matto e vive in solitudine, in una stanza che fa sempre parte del Labirinto. Dunque i vari personaggi si incontrano, chiacchierano, fanno musica insieme. La Ragione indaga e il Corpo pretende. Non si sa bene chi comandi su chi e d’altra parte è antica questione. Una parte notevole è governata da Eros, ed è un tema ricorrente, per non dire centrale, nei libri di Scalfari. E la riflessione si fa dunque felicemente, intensamente narrazione. Ora si può essere attratti da questo mondo arcaico o esserne sazi e cercare una via di fuga. Dopo aver esplorato il Labirinto, Scalfari assegna al personaggio di Andrea, giovane nipote di Cortese, il compito di andarsene lontano, dall’altra parte del mondo. Andrea ci va nel momento in cui è preso dall’amore per Cristina con cui ha avuto un incontro memorabile. Bene: per viaggiare Andrea si serve del pensiero. Non c’è mezzo più veloce che in pochi secondi lo possa trasportare in un nuovo mondo, tecnologicamente evoluto e assoggettato a criteri di vita straordinariamente nuovi, ma anche sterili. Sarebbe piaciuto a Swift questo paese dove la gente ha sempre fretta e si fa governare da una Rete presieduta da cinque magistrati che risolvono ogni problema. In pratica l’umanità ha reso se stessa schiava, negandosi il piacere di vivere. Ma il romanzo di Scalfari, pur prevedendo il dolore e la Morte, è anche un inno al piacere di vivere e alla libertà di inventarsi la propria vita. Un piacere che non potrebbe esistere senza il pensiero che lo amministra e lo filtra, lo centellina e lo proietta nel gran mare del Tempo.
IL LIBRO Il Labirinto di Eugenio Scalfari ( Einaudi pagg. 200, euro 19)