venerdì 1 aprile 2016

Corriere 24.3.16
Perché è giusto avere paura e reagire
Dopo le stragi si rinnova un senso di smarrimento: dobbiamo riconoscerlo, accettarlo, evitare che si trasformi in angoscia e tornare alla «vita normale»
di Michela Marzano


Prima o poi doveva accadere. Ho paura. Quella paura che avevo soffocato il 7 gennaio del 2015, subito dopo gli attentati a Charlie Hebdo, decidendo di andare comunque in aeroporto e partire, anche se tra le vittime c’erano alcuni conoscenti e un caro amico. Quella paura che mi aveva invaso la notte del 13 novembre quando ero a Venezia e, per alcune ore, non ero riuscita ad avere notizie di mio marito e dei miei cari a Parigi. Prima di chiuderla a chiave nel profondo e precipitarmi, il giorno successivo, a prendere di nuovo un aereo e tornare a casa. E poi passare molte ore in Università con gli studenti perché, come ripetevano tutti in quei giorni, la vita doveva continuare e non si poteva certo darla vinta ai terroristi. La vita doveva continuare, e nessuno poteva arrogarsi il diritto di privarci della nostra libertà o di impedire i nostri movimenti.

E allora perché oggi, dopo gli attentati di Bruxelles, questa paura non se ne vuole andare? Cos’è questo sentimento improvviso di impotenza e di smarrimento? Cos’è quest’ansia che mi blocca, questo pensiero che, prima o poi, potrebbe accadere anche a me di trovarmi al momento sbagliato al posto sbagliato, in quell’aeroporto o in quella metropolitana, in quello stadio o in quella stazione? Ammetto di aver provato molto fastidio l’altro ieri quando, incollata davanti al televisore, ascoltavo le dichiarazioni pseudo-rassicuranti di chi incitava la popolazione a «non farsi prendere dalla paura», a «mostrare coraggio e determinazione», a «riprendere immediatamente la vita normale». «Vous n’aurez pas ma peur», come recitava uno slogan subito dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. Confesso volentieri di aver provato quasi tenerezza quando l’Alto rappresentante per la Politica Estera dell’Ue Federica Mogherini, commentando la strage, non è riuscita a trattenere le lacrime e si è lasciata travolgere dall’emozione.

Riconosco senza problemi di aver pensato che chiunque passi molto tempo in aeroporto o in stazione non può non lasciarsi abbattere e non aver paura. Talvolta è solo una questione di fortuna. Una frazione di secondo. Una decisone presa all’ultimo minuto. E allora capita di scrutare il volto di alcuni passeggeri, di guardare quella valigia abbandonata magari solo per pochi minuti, di farsi un segno della croce prima che il volo decolli. Ma questo lo può capire solo chi non si ferma. E chi, dopo lo smarrimento iniziale, decide che tanto, se qualcosa deve succedere, succederà. E allora ritrova il coraggio. Ma il coraggio, lo spiegava già Aristotele, non significa, appunto, non aver paura. Significa prendere delle decisioni e agire anche quando si ha paura. Significa sapere bene quali sono i rischi che si corrono e, nonostante tutto, mettersi in gioco. Ma sempre e solo dopo aver dato un nome all’angoscia. Averla riconosciuta. Averla accolta. Senza fare finta che non esista o non ci riguardi. O magari delegare ad altri il compito di cancellarla, privandoci magari di alcune libertà fondamentali come ci ha tristemente insegnato la storia.

Ho paura. Ma forse non è un problema. Visto che, come diceva Montaigne in uno dei suoi saggi più belli, la paura è una delle tracce più forti della nostra umanità. E che se talvolta ci permette di «volare», aiutandoci a raccogliere tutte le energie di cui siamo capaci e a utilizzare le nostre risorse interne, talvolta «ci inchioda i piedi al suolo e ci impedisce di muoverci». Soprattutto se dalla paura si scivola nell’angoscia. E allora ci si paralizza. Ci si chiude a riccio. Si aspetta solo che passi. Anche se poi, da sola, la paura non passa mai. E il rischio più grande che si possa oggi correre è la tentazione di non muoversi più. Dando così ragione a chi utilizza il terrore come un’arma e spera, bloccando i nostri movimenti, di soffocare la vita. La vita e il desiderio di andare avanti. La vita e il movimento, appunto. Anche perché è solo quando ci si rimette in moto, che si ha poi accesso a quegli strumenti necessari per realizzare i nostri progetti e costruire il nostro avvenire.

La gente ha paura e chiede più sicurezza. Alcuni sondaggi realizzati in Francia e in Belgio sull’onda dello shock mostrano che sono sempre più numerosi coloro che chiedono una presenza più massiccia delle forze armate, talvolta anche la chiusura delle frontiere. Dopo mesi durante i quali la minaccia terrorista è stata forse sottovalutata, e alcuni Stati Europei hanno abbandonato a loro stesse molte periferie dove la crisi economica e la crisi di senso hanno permesso all’odio dell’estremismo islamico di attecchire, oggi assistiamo al rischio di una crisi della democrazia. Che deve certo proteggere i propri cittadini con misure di sicurezza adeguate, ma che deve anche affrontare in maniera adeguata e culturale il tema della violenza e dell’intolleranza. Si ha paura di ciò che non si conosce e di ciò che non si controlla. Si ha paura dell’incertezza e si ha paura della morte. Si ha paura delle novità e si ha paura del movimento. «Noi, con le nostre terribili esperienze e continue ansie», scriveva Kafka ne Il castello, «ci spaventiamo senza difenderci a ogni scricchiolio, e se uno ha paura subito ce l’ha anche l’altro pur senza sapere esattamente perché. In questo modo non si riesce più a dare una giusta valutazione delle cose». Difendiamoci allora.

Ma cerchiamo anche di essere onesti con noi stessi dando «una giusta valutazione delle cose», nominando la paura e insegnando il coraggio. Quello che mi porterà, tra qualche giorno, a prendere di nuovo l’aereo e a ricominciare a muovermi nonostante i rischi oggettivi. Quello che mi permetterà di non fermarmi, nonostante la tentazione di farlo. Quello che mi darà voglia di tornare alla «vita normale», nonostante l’anormalità della situazione. È solo nel momento in cui la paura viene riconosciuta, d’altronde, che può poi diventare feconda. Spingendoci a impegnarci in prima persona — invece di delegare sempre a qualcun altro — per proteggere le nostre libertà e i nostri valori.