Repubblica 1.4.16
Da Arianna a oggi il mito che descrive la nostra condizione
di Maurizio Bettini
Un
viluppo di corridoi, scalette, ballatoi passaggi, abbaini, cantine,
soffitte: ecco la casa dei Gualdo. Da questo incredibile intrico se ne
sviluppa però un secondo, ulteriore, fatto stavolta non di ambienti, ma
di parentele, ascendenze o discendenze; talmente complesso che nessuno
riesce più a raccapezzarcisi, e solo l’Io che narra questa storia ne
possiede la chiave. Un simile proliferare di grovigli quasi
inevitabilmente conferisce a questo romanzo di Eugenio Scalfari il
titolo che porta: Il Labirinto. Così come subito suggerisce al lettore,
anche al più distratto, il ricordo di Teseo, di Arianna, del Minotauro e
di Dedalo. Ma per quanto ciò possa sorprendere, l’autore non aveva
pensato al mito greco. Ce lo rivela Scalfari stesso, nel saggio premesso
a questa seconda edizione del suo romanzo: narrando la storia
dell’intricata casa dei Gualdo, il mito del Labirinto cretese non si era
affacciato alla sua fantasia. La memoria di Teseo e del filo di Arianna
è emersa in lui solo “dopo”, a cose fatte, quando, a distanza di
vent’anni, ha deciso di rileggere la sua opera. Singolare vicenda di
letteratura, che potremmo descrivere ricorrendo alla lezione di Umberto
Eco: in altre parole, al momento in cui scriveva il proprio romanzo, il
mito del Labirinto era rimasto estraneo alla “intenzione dell’autore”;
ma evidentemente non era estraneo alle “intenzioni della sua opera”, che
conteneva comunque questo ulteriore significato, a prescindere da ogni
consapevole scelta. Il racconto mitico, dice del resto lo stesso
Scalfari, non è semplicemente “una favola tramandata dai millenni”, ma
“crea e inventa fin dai primordi dell’esistenza”: nessuna meraviglia
perciò che sappia ricrearsi anche in nuove narrazioni che di esso sono
inconsapevoli. Ma in che cosa consiste, per Scalfari, questo labirinto
ritrovato, se possiamo chiamarlo così? Il Labirinto, spiega l’autore, «è
il mito per eccellenza, perché è quello che meglio descrive la
condizione umana. Noi siamo tutti in un labirinto dal quale è
impossibile uscire». Questa antica figura dà forma simbolica al viluppo
delle nostre contraddizioni – provocate dal potere, dall’amore, dal
desiderio, dal narcisismo, dalla malinconia – quelle che ci stringono in
una rete dalla quale è impossibile districarsi. Unicamente i miseri e
gli ebeti restano fuori dai corridoi di questa eterna prigione, per gli
altri non c’è scampo. «Solo quando la morte arriva e ti tocca la spalla,
il labirinto scompare insieme a te». Così avviene allorché Stefano
Gualdo, uno dei protagonisti del romanzo, lascia la vita convinto che,
per vivere la propria morte, bisogna che la sua mente sia vuota d’ogni
pensiero; così avviene allorché, dopo un commiato protrattosi per tre
giorni, la Regina porta fuori dal labirinto Cortese Gualdo, il
patriarca. Man mano, sotto i nostri occhi il labirinto secondo Scalfari
si viene configurando come un cammino intricato che può avere la stessa
durata dell’esistenza; un lungo e protratto passaggio – contraddittorio,
laborioso – che dal territorio della vita conduce a quello della morte.
A questo punto, però, il mito torna a riaffacciarsi. Stavolta non solo
nella memoria dell’autore, ma anche in quella del lettore. Quando Enea
si trova di fronte alla porte dell’Ade, ciò che vede scolpito sui
battenti è proprio (con le parole di Virgilio) “l’inestricabile errare”
nella buia dimora cretese. L’immagine del Labirinto la troviamo dunque
raffigurata esattamente sulla soglia che separa il regno dei vivi da
quello dei morti – in Virgilio l’intrico delle linee e degli spazi
marcava già l’estremo passaggio. A questo punto possiamo chiederci:
questa scelta del poeta romano fu casuale, o c’è qualcosa d’altro? In
realtà, già da tempo egittologi e studiosi del vicino oriente hanno
messo in luce come, anche in queste civiltà, la figura del labirinto si
associ alla soglia che separa la vita dalla morte. Ma il caso forse più
impressionante ci viene dai racconti di Malekula, un’isola della
Melanesia: secondo i quali il defunto, per accedere al regno
oltremondano, deve districarsi di fronte a un intrico di linee – detto
“La via” – che corrisponde a un vero e proprio labirinto. Questa
complessa figura geometrica gli viene presentata, tracciata sul suolo,
da un’ombra guardiana, che cercherà di metterlo in imbarazzo
cancellandone una metà allorché il defunto si sforzerà di venirne a
capo: solo una conoscenza completa degli intrichi che compongono “la
Via” permetterà al nuovo arrivato di accedere al regno dei morti,
altrimenti ne resterà escluso. Sono molte dunque le tradizioni culturali
nelle quali il labirinto si configura come un simbolo del passaggio –
laborioso, contraddittorio – dalla vita verso la morte. Il fatto è che,
come abbiamo già ricordato con Scalfari, il racconto mitico «crea e
inventa fin dai primordi dell’esistenza». E attraverso il gioco del
narrare, ieri come oggi, continua creare.