Repubblica 1.4.16
Lunica rete che può sconfiggere lo stato islamico
di Niall Ferguson
LA
parola dominante di questa settimana è «network»: non so più quante
volte l’ho letta a proposito dei sanguinosi attacchi terroristici di
Bruxelles. Da sempre i terroristi fanno parte di gruppi o di
organizzazioni. Ora però parliamo sempre più spesso di “reti”
terroristiche.
Non è solo una questione semantica. Di fatto, non
riusciremo a sconfiggere lo Stato Islamico (Is) se non sapremo
comprendere a fondo il significato di quella che è una vera e propria
“rete”. Recentemente, Barack Obama ha dichiarato che «uccidere Abu Bakr
al Baghdadi, il sedicente Califfo dell’Is, è uno dei principali
obiettivi» del suo ultimo anno di presidenza. Di fatto però, ciò rivela
un fraintendimento di fondo sulla natura del nemico che stiamo
affrontando. Il presidente, fiero dei risultati ottenuti dopo aver
autorizzato l’assassinio di Osama Bin Laden, pensa di poter usare gli
stessi mezzi per decapitare l’Is. Ma la caratteristica di una rete è che
decapitarla non è facile. Non è una struttura gerarchica, con al
vertice un leader onnipotente.
Anche John Kerry sbaglia quando
pensa di poter misurare la forza dell’Is in termini di territorio,
leadership e disponibilità di denaro. L’Is è davvero una rete. Benché
pretenda di definirsi uno Stato; e la sua forza non può essere valutata
secondo quei criteri.
La stessa confusione ha funestato il
dibattito sulla misura in cui le autorità belghe hanno mancato al loro
compito di proteggere i propri cittadini e i turisti in arrivo a
Bruxelles. Evidentemente si erano lasciati sfuggire la palla quando la
Turchia rispedì in Belgio Ibrahim El Bakraoui, dopo averlo arrestato al
confine siriano. Ma se sono migliaia le persone che lasciano l’Europa
per la Siria, a tornare sono appena alcune centinaia. Nel dicembre
scorso era stato spiccato un mandato d’arresto internazionale contro il
fratello di El Bakraoui, ma ciò non gli ha impedito di farsi saltare in
aria insieme alle sue vittime alla stazione della metropolitana di
Maelbeek.
Nelle descrizioni delle reti terroristiche responsabili
degli attacchi di Bruxelles, i giornali parlano in genere di un gruppo
di sei persone. Ma anche qui siamo in presenza di una rappresentazione
errata del problema, dato che questi attentatori appartenevano a una
rete: quella dei dodici responsabili degli attacchi del novembre 2015 a
Parigi; la stessa di Reda Kriket, l’uomo arrestato in una banlieue di
Parigi, già condannato in contumacia in Belgio l’anno scorso; così come
di un altro associato, Khalid Zerkani, soprannominato ironicamente
“Babbo Natale” perché si era specializzato nella distribuzione di regali
ai jihadisti da reclutare. E così via.
Di fatto però, nel 99% dei
casi chi parla di “network” o di “rete” non ha un’idea precisa del
significato del termine. Prendiamo come punto di partenza il concetto
dei sei gradi di separazione. Anche chi non conosce Khalid Zerkani,
conosce qualcuno che conosce qualcuno che conosce qualcuno che conosce
qualcuno che conosce qualcuno che lo conosce; e ciò grazie alla notevole
capacità di collegarci socialmente che abbiamo sviluppato in quanto
specie. Ognuno di noi si trova a non più di sei gradi di separazione da
qualunque altro abitante di questo pianeta. A questo proposito il
sociologo americano Stanley Milgram ha coniato il termine di
“small-world problem” (problema di un mondo piccolo).
Ovviamente,
per certi versi non si tratta affatto di un problema. È grazie alla
nostra capacità di collegarci anche a grandi distanze che si propagano
le buone idee. Ed è all’effetto rete che dobbiamo la rivoluzione
scientifica, l’Illuminismo, la rivoluzione industriale. A differenza
delle gerarchie, buone per garantire l’ordine e la difesa, le reti son
spontanee e creative. Il guaio è che si prestano benissimo a propagare,
oltre alle buone idee, anche quelle cattive.
Oggi si parla di idee
che «diventano virali». Ma di fatto c’è una differenza tra i virus come
l’Ebola e l’estremismo islamico: i primi si diffondono
indiscriminatamente, approfittando di ogni via possibile, mentre le idee
possono propagarsi solo se consapevolmente adottate da noi in quanto
individui. Ma in effetti si tratta di un processo comparabile a
un’epidemia, che dipende sia dalla struttura della rete sociale, sia
dalla qualità dell’idea stessa.
Proviamo a pensare all’Is come a
un Facebook dell’estremismo islamico. Al suo esordio, nel 2004, Facebook
era solo un gruppetto nerd costituito a Harvard da alcuni universitari;
oggi ha più di un miliardo e mezzo di utenti. L’Is, nato nel 2006 da un
piccolo gruppo di jihadisti iracheni, secondo i dati del Pew Research
Center ha ormai almeno 63 milioni di sostenitori.
Ma basta
un’infima minoranza di membri di questa rete per commettere atti di
violenza, facendo moltissime vittime. Il governo Usa parla ingenuamente
di lotta contro l’estremismo violento; ma ciò che rende la rete più
temibile è precisamente l’estremismo non violento della maggioranza dei
suoi seguaci. C’è chi predica la jihad, dando vita a un hub attorno al
quale si coagula il sostegno. E c’è chi usa Twitter. Così, in maniera
non violenta, la rete si espande.
Se l’Is fosse uno Stato
gerarchico capeggiato da Al Baghdadi, certo la sua uccisione potrebbe
indebolirlo. Ma è una rete. E le reti non si possono decapitare, un po’
come l’Idra dell’antica mitologia greca, che non si poteva uccidere con
un solo colpo. Certo, alcune reti sono vulnerabili, se si prendono di
mira i suoi centri vitali. Ma se la rete è sufficientemente decentrata —
come sospetto sia il caso dell’Is — non basterebbero a distruggerla
cento attacchi di droni contro i suoi supposti leader. Si rischierebbe
anzi di rafforzarla, alimentando l’ossessione del martirio, che ha un
ruolo centrale nella sua ideologia. L’Is potrebbe allora rivelarsi
«anti-fragile» — secondo l’impagabile neologismo di Nassim Taleb — nel
senso che i nostri attacchi rischierebbero addirittura di rafforzarlo.
Ai
governi europei si pone allora un problema terrificante, dato che la
rete dell’Is, anche se più fitta in Medio Oriente, è oramai globale. Ma
c’è una soluzione. Durante un periodo decisivo per la sua ascesa, quando
in Iraq si combatteva contro Al Qaeda (precursore dell’Is) il generale
Stanley McChrystal ebbe una rivelazione: «Per confrontarci con la rete
sempre più estesa di al Zarqawi, dobbiamo replicare le sue
caratteristiche di dispersione, flessibilità e velocità. Le sette parole
della frase “Serve una rete per sconfiggere una rete” sono divenute col
tempo un mantra a tutti i livelli del Comando, una sintesi del nostro
concetto operativo».
Se qualcuno, arrivato a questo punto, pensa
ancora che l’uscita dall’Ue possa essere vantaggiosa per la Gran
Bretagna, vuol dire che non mi ha letto con attenzione. Per quanto
oberata e non sufficientemente finanziata, l’Europol, o Polizia europea,
rappresenta almeno un primo abbozzo della rete che dobbiamo costruire,
se vogliamo avere qualche probabilità di sconfiggere l’Is. Oggi più che
mai l’intelligence e le forze di sicurezza occidentali hanno bisogno di
organizzarsi in reti.
“Serve una rete per sconfiggere una rete”.
Le sette parole della «legge di McChrystal» sono la vera lezione di
Bruxelles. E potrebbero essere anche il miglior argomento contro il
Brexit.
Niall Ferguson è uno storico britannico e insegna all’Università di Harvard Traduzione di Elisabetta Horvat