venerdì 1 aprile 2016

Repubblica 1.4.16
L’incendio morale sul referendum
di Stefano Folli

NESSUN governo può sopportare un’ombra morale, un sospetto come quello che si è allungato all’improvviso sull’esecutivo Renzi in seguito al caso Guidi. Non lo può tollerare nei tempi in cui viviamo, percorsi dalle correnti dell’anti-politica, dalla rivolta contro gli establishment, dall’insistente quotidiano controllo di legalità esercitato da un’opinione pubblica severa.
L’ORMAI ex ministra dello Sviluppo economico si è lasciata intrappolare in un grave conflitto d’interessi, un esempio quasi di scuola di come non ci si comporta quando si riveste una delicata responsabilità istituzionale. L’emendamento sul progetto petrolifero “Tempa Rossa” reinserito in extremis nella legge di Stabilità; l’ingenua telefonata al compagno, diretto interessato a quelle ricerche; l’immediata e gioiosa comunicazione di quest’ultimo alla compagnia petrolifera con cui era in affari...
La vicenda è abbastanza trasparente nella sua dinamica, soprattutto perché esistono intercettazioni telefoniche a carico dei protagonisti del pasticcio, intercettazioni disposte nell’ambito dell’inchiesta della magistratura di Potenza che ha portato a numerosi arresti e al pieno coinvolgimento del compagno della ministra Guidi. È invece una forzatura polemica, almeno per ora, voler trascinare nel caso l’altra ministra, Maria Elena Boschi, che non è intercettata ed è solo citata, non si sa quanto abusivamente, nella conversazione fra i primi due.
In ogni caso la ministra tecnica Guidi — priva fra l’altro di protezioni politiche — non poteva restare al suo posto un giorno di più e infatti è uscita di scena con una lettera dignitosa a Renzi, senza nemmeno attendere il rientro del presidente del Consiglio dagli Stati Uniti. «Opportunità politica», certo: sarebbe stato quanto mai inopportuno lasciare affondare il governo nelle sabbie mobili di una vicenda in cui la protagonista non era più difendibile. Per qualcosa di meno Maurizio Lupi, esponente del Ncd, fu costretto a dimettersi senza indugi. E in passato (governo Letta) era stato proprio Matteo Renzi a reclamare a gran voce le dimissioni della ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri per un comportamento improprio nel caso Ligresti. Allora la lettura politica di quell’episodio fu semplice: il “fuoco amico”, cioè l’opposizione interna, voleva indebolire Enrico Letta che difatti di lì a poco lasciò Palazzo Chigi. La Cancellieri non si dimise, ma il caso pesò non poco sulle sorti complessive del governo.
Che ora si tratti di leggerezza o di mancanza di senso delle istituzioni, il conflitto d’interessi va tagliato alla radice altrimenti la moralità di fondo dell’esecutivo viene minata in modo fatale. Nonostante tutto, esistono dei limiti non superabili anche in queste stagioni in cui l’etica in politica sembra essere diventata una scelta opzionale. La questione, peraltro, va al di là della persona di Federica Guidi. Come in una miscela velenosa, la storia del petrolio in Basilicata porta con sé una serie di elementi che in campagna elettorale possono diventare esplosivi. Nel pentolone tutto si tiene: il petrolio, le trivelle, l’ambiente minacciato, gli interessi economici di pochi, i favori legislativi fatti con il favore delle tenebre. Il vero, il probabile e magari il falso si confondono come nella trama di un brutto romanzo politico in cui protagonisti e comprimari peccano per approssimazione, sottovalutazione della posta in gioco, mediocre affarismo.
L’inchiesta di Potenza ha fornito, certo in modo casuale, alcuni ottimi argomenti alla campagna dei Cinque Stelle, della Lega e delle altre opposizioni di destra e di sinistra. Anche di quelle che manovrano nella penombra correntizia del Pd. E ovviamente ha portato alla ribalta il confronto sul referendum del 17 aprile. Qualcuno si lamentava che di quella consultazione si parlasse ancora troppo poco: dopo il caso Guidi non c’è più tale pericolo. Il referendum diventa un appuntamento politico, al di là del merito del quesito, e s’intreccia con lo scontro sul conflitto d’interessi, guarda caso proprio collegato ad affari petroliferi. C’è da riflettere su come si è giunti a impaludarsi in questo groviglio.
Renzi ha avuto la prontezza di riflessi di salutare in fretta la Guidi e questo limita i danni. Per il suo governo è chiaro che si tratta di uno scivolone. Tuttavia da una caduta ci si può rialzare se non si commettono altri errori. Quali? Sul referendum delle trivelle, ad esempio, si poteva evitare di provocare ulteriori lacerazioni all’interno del Pd. Aver sottovalutato le insidie del 17 aprile e il gioco di alcuni governatori regionali che parlano dell’ambiente ma pensano agli assetti di via del Nazareno a Roma, è apparso un atto assai goffo in termini politici. L’invito all’astensione ora si ritorce sul Pd, sembra quasi che serva a proteggere interessi inconfessabili.
Sarebbe meglio a questo punto un chiarimento all’interno del partito in vista di una posizione più rispettosa verso gli elettori. Poi, chi vuole non andrà a votare e punterà sul non raggiungimento del quorum. Ma sarà una scelta individuale. Tutti hanno capito che Renzi ama poco il Pd, così come è oggi strutturato. Eppure ignorarne i travagli interni e le contraddizioni espone il premier a rischi da non sottovalutare. Il caso Guidi e le nubi che si sono addensate all’improvviso sul governo testimoniano che il cammino del centrosinistra non è semplice né lineare. Prima il referendum e poi le amministrative sono due passaggi che da oggi diventano più insidiosi.