Corriere 1.4.16
Il «blitz» del premier per evitare ricadute su Boschi e referendum
di Francesco Verderami
Roma
I promotori del referendum contro le trivelle hanno trovato ieri il
petrolio e Renzi doveva tentare di chiudere subito quel pozzo ai suoi
avversari. Il «caso Guidi» andava risolto in poche ore per evitare che
il coinvolgimento del ministro allo Sviluppo economico nell’inchiesta
della Procura di Potenza fornisse carburante ai sostenitori della
consultazione popolare avversata dal premier. E non c’è dubbio che
l’intreccio accusatorio in cui viene chiamato in causa l’Eni, dentro un
contesto che richiama a un comitato d’affari prossimo al governo e che
evoca il conflitto di interessi a Palazzo Chigi, contribuirà comunque ad
alzare il quorum nelle urne il 17 aprile.
La scelta di Renzi era
inevitabile, il suo colloquio dagli Stati Uniti con il ministro
-preceduto da una telefonata a Mattarella — è servito solo a offrire una
via d’uscita dignitosa alla Guidi, impedendo che la vertenza si
protraesse a danno del governo. Così il fattore referendario è stato
depotenziato, non annullato. Ma così Renzi ha potuto anche separare il
destino della Guidi da quello della Boschi, finita nelle intercettazioni
e nel successivo tritacarne «solo per aver svolto il mio lavoro da
ministro», ha detto quando ha saputo dell’inchiesta. La raccontano
incredula e stizzita: «Non sapevo nemmeno che avesse un compagno. E
tantomeno ci aveva informato che lui avesse interessi nell’ambito del
suo stesso ministero».
Ma nel gioco della politica vale per tutti
il «non poteva non sapere», e nel rapporto con l’opinione pubblica non è
facile spiegare che ogni emendamento di ogni provvedimento passa dal
titolare dei Rapporti con il Parlamento prima di essere presentato al
vaglio delle Camere. Per dolo, colpa o semplice omissione, la Boschi è
finita sul banco degli imputati, additata dalle opposizioni. Perciò
Renzi è dovuto intervenire e chiudere il rapporto con la Guidi nel
governo. Lui che nei Consigli dei ministri era solito scherzare con i
suoi colleghi — «Se vi arrivasse un avviso sapete che fare di quel
foglio» — ha separato il garantismo da una vicenda giudiziaria in cui in
molti hanno palesato tratti di ingenuità clamorosa, visto l’uso
disinvolto del telefono.
La Guidi doveva dimettersi. E prima del
tg delle venti. Ogni giorno in più al dicastero sarebbero valsi almeno
un paio di punti percentuali di cittadini pronti a far la fila alle urne
per il referendum contro le trivelle (e contro Renzi). La Guidi doveva
lasciare. E in prime-time televisivo. Se non l’avesse fatto sarebbe
forse saltata l’agenda dei lavori alla Camera, perché grillini e
leghisti, insieme alla sinistra radicale, erano pronti a presentare la
mozione di sfiducia proprio in concomitanza del voto conclusivo di
Montecitorio sulle riforme istituzionali. E oltre al titolare dello
Sviluppo economico sarebbe stata chiamata in causa anche la Boschi.
Il
premier non poteva (né voleva) difendere la Guidi. Alla fine, l’unico a
farlo è stato Berlusconi, che si è scagliato contro l’uso delle
intercettazioni, «vero vulnus della democrazia»: sarà stato per i suoi
rapporti con il padre dell’ormai ex ministro o perché proprio lo
Sviluppo economico era l’ultimo frammento di quel che fu il vecchio
patto del Nazareno. In ogni caso il leader di Forza Italia ha preso le
sue parti. Per Renzi invece la mossa era obbligata. Il ministro senza
partito doveva dimettersi per evitare che un partito, il Pd, subisse
ulteriori danni d’immagine: da Buzzi a Odevaine sono tutti soci
sostenitori del Movimento 5 Stelle. E con l’approssimarsi delle
Amministrative bastano i guai di Roma e di Napoli, di Torino e di
Bologna.
Mentre il premier dava il benservito alla Guidi dagli
Stati Uniti, a Roma i democrat «tendenza Renzi» discutevano
dell’inchiesta mettendo insieme i tasselli della vicenda — l’Eni, il
referendum, il governo — e giungendo alle stesse conclusioni di chi li
aveva preceduti anni orsono nella gestione di Palazzo Chigi. Percepivano
insomma «uno strano e minaccioso ticchettio», che il procuratore
nazionale Antimafia Roberti provvedeva pubblicamente a silenziare,
parlando del lavoro dei magistrati di Potenza: «Questa non è giustizia a
orologeria. Dispiace invece rilevare che per risparmiare denaro ci si
riduca ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldini».
Altro
petrolio per i sostenitori del referendum contro le trivelle. La testa
della Guidi forse non basterà a Renzi per chiudere il pozzo dei suoi
avversari. Che stanno anche nel suo partito.