Corriere 1.4.16
L’illusione dello stato trasparente
di Ferruccio de Bortoli
Un
piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia
italiana è racchiuso in un provvedimento semisconosciuto adottato dal
governo, in via preliminare, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto
di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministrazione. È
la versione italiana del Freedom of Information Act . Negli Stati Uniti
esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della
trasparenza. Dà la misura reale della cittadinanza. E della libertà
d’informazione, del diritto di cronaca. Senza quelle norme — tanto per
fare un solo esempio — non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe
sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è
stato tratto il film premio Oscar Spotlight . Da noi invece la legge
rischia di assumere il tono di una concessione dovuta, una fastidiosa e
vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolare a
Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamento al Senato
il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne
fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato
velocemente ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al
contrario, tutto il potere discrezionale di cui la burocrazia italiana è
ghiotta.
All’articolo 6 del decreto legislativo, si legge che
«chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni». Bene.
P eccato però che l’elenco delle
eccezioni sia semplicemente sterminato. Alcune (sicurezza, difesa,
relazioni internazionali) sono condivisibili. Altre decisamente meno. Il
limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente
rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del
cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua
esecuzione, in una condizione di palese inferiorità, alla stregua di una
curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie
amministrazioni, un responsabile unico cui rivolgersi. Non c’è uno
sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un
singolo cittadino (destinata a perdersi nel mare magnum degli uffici)
configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di
motivazione del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto
dalla legge 241 del 1990. Disposizione quasi mai rispettata. E dunque il
legislatore, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe
arreso a un’inadempienza), ipotizzando, con il silenzio-rigetto, una
particolare «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse
legittimo. Rivolgendosi al Tar, questi potrebbe costringere
l’amministrazione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e
costosa per un semplice diritto all’informazione.
Nel suo parere,
il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema
di decreto legislativo. Condivide, citando Norberto Bobbio,
«l’aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile».
Sottolinea come la trasparenza sia «una forma di prevenzione dei
fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con
troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30
giorni dalla richiesta, realizzerebbe poi «il paradosso che un
provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in
maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la pubblica
amministrazione non gli accorda l’accesso richiesto».
I fautori di
un più esteso Freedom of Information Act italiano si sono mobilitati.
Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commissioni Affari
costituzionali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul
serio. E non considerati dei petulanti rompiscatole legislativi. Qualche
loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma
le loro critiche sono fondate. Il provvedimento finale verrà
probabilmente varato entro un paio di mesi ed è auspicabile che sia
corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma
anche delle osservazioni dell’Anac, l’autorità anticorruzione (ribadite
ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per
la protezione dei dati personali.
Il governo ha l’occasione di
dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e
il loro diritto ad essere informati. La trasparenza non va vissuta come
un intralcio all’attività amministrativa ed economica. Se attuata senza
eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezza e incisività degli
atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza
le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteismi. Se, al
contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più
stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifiche
internazionali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità
dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le
condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentiamo, gli
stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata
rivoluzionaria o distruttiva dei rapporti economici. Non è il
Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di
vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura
né della trasparenza né del diritto d’informazione. Anzi, ne va
orgogliosa.