lunedì 18 aprile 2016

Repubblica 18.4.16
Il lato buono delle primarie Usa
di Andreas Gross

DALL’ESTERNO sembra un grande circo, un‘esibizione acrobatica di ego e di politica come puro business, ma a uno sguardo più attento, ha molto di buono. Nelle primarie Usa c’è più democrazia di quanto si pensi in Europa. Se non altro perché rivelano a migliaia di cittadini le pesanti limitazioni imposte dal sistema plutocratico. Gli americani però ne traggono anche indicazioni su come spezzare queste catene, affrancando la democrazia dalla plutocrazia.
In sette settimane trascorse in sette stati americani, un tour de force di comizi, dibattiti, cronache, commenti, giudizi, ore e ore passate davanti alla tv a sentire opinionisti e analisti, ho imparato una cosa.
Ho capito il senso delle primarie, condotte per la prima volta nel 1912 per volontà dell‘allora presidente, ricandidatosi alla presidenza, Theodore Roosevelt. I cittadini non erano chiamati solo a scegliere tra i candidati espressi dai due maggiori partiti, ma dovevano aver voce nella scelta dei candidati stessi, come recitava il motto di Roosevelt, “La parola al popolo”.
Si trattava in quel caso di una strategia, perché il rivale di Roosevelt, William Howard Taft, aveva in pugno le elite repubblicane di tutti gli stati federali. Roosevelt poteva aggirare l’ostacolo solo coinvolgendo i cittadini nella scelta del candidato.
La campagna elettorale parte in genere già sette mesi prima che inizino le primarie. Gli aspiranti presidenti illustrano i programmi, approntano i comitati elettorali in tutti gli stati, partecipano alla maratona di eventi organizzati per raccogliere fondi, corteggiano i potenziali donatori, si circondano di un team di strateghi, speech writer, sondaggisti, esperti di comunicazione. Si espongono alle critiche dei giornalisti. Nei dibattiti si scagliano contro gli avversari interni e esterni al partito. Già in questa fase preliminare si svolge una selezione. Molti si rendono conto di non avere chance e rinunciano. Altri abbandonano dopo un passo falso.
Il calendario delle primarie viene stabilito per legge ogni quattro anni. Si comincia da stati piccoli, poco dispersivi, come l‘Iowa e il New Hampshire. Lì i candidati in genere partono da zero, devono farsi conoscere e convincere. In questi stati i cittadini hanno la volontà e la possibilità di ascoltarli e farsi ascoltare. I loro bisogni e le loro opinioni emergono al pari delle personalità, dei programmi e degli obiettivi dei candidati. Si delinea anche però il volume del consenso. Sono queste le premesse e le funzioni della democrazia.
Sono venuti così alla luce l’enorme frustrazione economica, lo stato di necessità in cui versa la gran parte del ceto medio che si sente trascurato dai politici tradizionali e li mette sotto accusa, sconvolgendo tutti i piani degli strateghi e delle elite dei partiti. Al terzo rampollo della dinastia Bush non sono bastati neppure 140 milioni di dollari per restare in corsa. Altrettanto palese è il timore di milioni di americani di scendere i gradini della scala sociale, restare soli, essere semplicemente ignorati.
Ma si è anche affermata l’idea che non è più il bene comune a guidare le azioni di Washington, bensì gli interessi particolari di gruppi privilegiati. Da qui l’enorme consenso di cui godono Donald Trump e Bernie Sanders, l’insuccesso di Jeb Bush e le gravi difficoltà di Hillary Clinton.
Ma che succederà se il vincitore delle elezioni di novembre non terrà conto delle opinioni e degli stati d’animo del paese? Può permetterselo? È una domanda che in America non ci si pone, perché l’idea di onnipotenza è connaturata in quasi tutti i protagonisti della politica. Però potrebbe anche darsi che non sia solo la plutocrazia a indebolire la democrazia americana. Chissà, magari anche negli Usa la politica viene esautorata dagli interessi globali dell’economia di mercato al punto da non essere più in grado di rappresentare gli interessi vitali della grande maggioranza deli americani.
Andreas Gross, politologo e studioso dei processi democratici, è stato per 24 anni parlamentare in Svizzera e per 8 anni capogruppo socialdemocratico nell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Traduzione di Emilia Benghi