lunedì 18 aprile 2016

Repubblica 18.4.16
Difendiamo l’Inghilterra dalla destra xenofoba
Se gli inglesi scelgono Brexit, il Regno Unito rischia di perdere l’anima
di Timothy Garton Ash

E IN tempi remoti quei piedi calcarono i verdi monti d’Inghilterra? No. E sui pascoli ameni apparve l’agnello di Dio? No. E il volto divino splendette sulle nostre colline ammantate di nubi? No. Eppure sono certo che noi inglesi dovremmo adottare “Jerusalem” di William Blake come inno nazionale e intonarlo in ogni possibile occasione.
Per due motivi, uno serio e l’altro molto serio. Il motivo serio è che non possiamo lasciare agli scozzesi ai gallesi e ai francesi le melodie migliori. Alle partite di rugby i francesi cantano il più bell’inno nazionale che esista al mondo e gli scozzesi e i gallesi a loro volta intonano motivi fantastici: l’esaltante “Fiore di Scozia”, che celebra la vittoria scozzese sugli inglesi nel lontano 1314 e il magnifico “Terra dei Padri”, in ricordo della resistenza del Galles contro la nemica Inghilterra. Poi cantiamo God Save The Queen, che dovrebbe unirci tutti, inglesi, scozzesi e gallesi. Chi altro c’è che ama il tè tiepido e il cricket?
Particolare superfluo ma divertente: God Save The Queen ha le stesse note non solo dell’inno patriottico americano “My country ‘tis of thee” ma anche dell’inno nazionale del Liechtenstein, il grande paradiso fiscale.
IL motivo molto serio è che oggi nella politica britannica c’è un buco a forma di Inghilterra. Attualmente tutto il valore affettivo dell’Inghilterra e dell’identità inglese è assorbito dal polo conservatore, euroscettico e xenofobo, a partire dal movimento estremista English Defence League fino al moderato brexitismo del cosiddetto Middle England, il ceto medio tradizionalista. È molto probabile che dove il 23 aprile, festa di San Giorgio, sventola la bandiera con la croce rossa su fondo bianco, il 23 giugno, al referendum, si voti per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. E il valore affettivo dell’identità inglese è molto potente, a livello poetico e emotivo non lascia spazio alla Gran Bretagna e all’identità britannica. Spiace dirlo, ma i versi de “Il soldato” di Rupert Brooke — «C’è un angolo di un campo straniero /che sarà per sempre Inghilterra » — non ammettono modifica.
Non è stato un problema finché l’identità inglese e quella britannica erano fuse, come in gran parte della retorica e delle canzoni della seconda guerra mondiale. Ma oggi che la Scozia, e in misura minore il Galles, si sono così distanziati, non si può ignorarlo. Il 5 maggio si vota in Scozia e in Galles. Sono un drogato di quotidiani e programmi di attualità eppure non ho capito bene quali sono i temi al centro delle elezioni. O nessuno l’ha detto sui giornali e in tv, o semplicemente mi è sfuggito. Scozia e Galles non sono ancora due Paesi distinti ma sempre più due stati distinti.
In uno splendido saggio pubblicato sul
New Statesman, David Marquand ci informa che il termine gallese riferito all’Inghilterra significa «terra perduta» — perduta dai Celti cioè, quando gli anglosassoni li cacciarono. La cosa strana è che l’Inghilterra è anche un po’ una terra perduta per gli inglesi. Si cita spesso la poesia di Gilbert Keith Chesterton che parla del «popolo segreto» d’Inghilterra che «non ha mai parlato». Nel discorso tenuto la sera della festa di San Giorgio, nel 1933, Winston Churchill si riferì all’Inghilterra come a «un mondo dimenticato, quasi proibito». Tra le numerose identità nazionali presenti su queste isole quella inglese fu forse la prima e certo la più pronta a entrare nell’ampio concetto di identità britannica di emanazione imperiale ed è l’ultima e la più lenta a uscirne.
C’è chi apprezza questa lentezza perché — si dice — quando l’identità inglese riemergerà lo farà inevitabilmente sotto forma di nazionalismo etnico e xenofobo: Nigel Farage all’ennesima potenza. È vero che la tendenza è questa. Contestato in Scozia, Farage si è scagliato contro i comportamenti “anti-inglesi”. Cercando online una fonte per la citazione di Churchill sono arrivato a un discorso di Enoch Powell (politico conservatore contrario all’immigrazione, Ndt.) L’identità britannica può anche coincidere storicamente con l’identità imperiale, ma essendo un cappotto montgomery che contiene quattro nazioni, le cosiddette Home Nations, e molte colonie, la sua incarnazione post-imperiale è a sua volta piuttosto comoda e di poche pretese: per essere britannici basta rispettare la legge (nella maggioranza dei casi) e sapersi lamentare del tempo. L’identità inglese può sembrare più esclusiva sotto il profilo etnico. Il fascino dei fautori della Brexit deriva in parte dalla loro schiettezza alla Jonh Bull. «Non c’è nessuno che parli come si parla in strada?», chiede il popolo segreto di Chesterton, e i brexitisti rispondono «Noi!». Quando sostengono di parlare per la Gran Bretagna, è evidente che parlano per l’Inghilterra.
Non c’è nulla di inevitabile però in questa appropriazione unilaterale. La bandiera di San Giorgio sventolerà a destra solo se gli inglesi liberali, di mentalità aperta e tolleranti, lo consentiranno. Dobbiamo quindi difendere l’Inghilterra dalla English Defence League. Sappiamo tutti che le identità nazionali si immaginano e si reinventano sulla base di un tessuto di storia e mito. Come dice George Orwell nel suo saggio sugli inglesi «la convinzione di somigliare ai nostri antenati — credere cioè che Shakespeare, ad esempio, somigli a un inglese di oggi più che a un francese o a un tedesco — è forse insensata, ma per il solo fatto di esistere influenza il comportamento».
Sarebbe assurdo negare che nella storia e nel mito inglesi il nazionalismo conservatore trovi materiale in abbondanza. Ma c’è n’è tanto anche a disposizione del patriottismo liberale, progressista, aperto, dalla Rivoluzione Inglese del Seicento a John Stuart Mill, fino alla promessa del leader laburista del dopoguerra Clement Attlee di costruire «una nuova Gerusalemme» (come nell’inno) per arrivare a Orwell, il San Giorgio della sinistra liberale inglese.
Di Orwell mi torna in mente il saggio “Il leone e l’unicorno”. L’Inghilterra, scrive, deve essere fedele a se stessa e «non è fedele a se stessa nel momento in cui i profughi che hanno cercato le nostre sponde sono rinchiusi in campi di concentramento e i dirigenti d’azienda escogitano raffinati sistemi per evadere l’imposta sui profitti straordinari». ( Plus ça change..., penserete) E conclude: «Dobbiamo rafforzare la nostra tradizione o perderla, dobbiamo espanderci o ridimensionarci, dobbiamo avanzare o arretrare. Io credo nell’Inghilterra e credo che bisogna andare avanti». Pensate a Orwell e mettete fuori quante più bandiere potete per la festa di San Giorgio. L’Inghilterra ritorna, in un modo o nell’altro, sta a noi che sia il migliore.
L’autore è uno storico britannico e professore all’Università di Oxford (Traduzione di Emilia Benghi)