Repubblica 18.4.16
Fallita la spallata no alla resa dei conti
di Stefano Folli
NEL
fallimento del referendum anti-trivelle due sono gli aspetti più
significativi, prevalenti sugli altri. Il primo, come è logico, riguarda
il bilancio della giornata: chi ha voluto usare il quesito
ambientalista, astruso e ambiguo come pochi altri, per trasformarlo in
una clava con cui colpire il presidente del Consiglio, ha sbagliato i
conti. Alla fine della giornata deve registrare la propria sconfitta,
anziché quella di Renzi: quorum irraggiungibile, solo la Basilicata
oltre la soglia.
Naturalmente c’è chi vorrà sostenere che il 32
per cento, dato finale alle 23, non è poi così male: equivale a 13
milioni di elettori che non hanno raccolto gli inviti all’astensione e
si sono comunque recati alle urne. Ma questa cifra può rincuorare, sia
pure in modo molto parziale, solo chi ha considerato il referendum alla
stregua di un grande sondaggio sul premier, una specie di prova generale
dell’altro referendum, quello di ottobre sulla riforma costituzionale,
che costituirà l’autentica, grande battaglia pro o contro Renzi. In
altri termini, se chi ha votato lo ha fatto per lanciare un segnale di
ostilità a Palazzo Chigi, può considerare l’esito di ieri sera negativo
ma non pessimo.
QUEI milioni di voti sono la piattaforma su cui
tentare di costruire le vittorie di domani o di dopodomani, dentro o
fuori il Pd.
Resta il fatto, tuttavia, che l’operazione trivelle
non ha funzionato. Il presidente della Puglia, Emiliano, ha sbagliato le
previsioni e a poco serve considerare che un paio di regioni e alcune
città del Sud sono quelle dove si è votato di più. Con ciò rovesciando
la tradizione secondo cui è il Nord l’area geografica dove l’affluenza è
maggiore, mentre il meridione detiene il tradizionale primato
dell’assenteismo. In ogni caso, è evidente che il merito del quesito è
stato sommerso dalla volontà di utilizzare il referendum come arma
impropria contro il governo. Forse era inevitabile, ma è opportuno che
su questo aspetto non secondario si avvii una riflessione: soprattutto
da parte di chi ha avviato la consultazione e di chi l’ha piegata verso
uno scopo tutto politico. L’altro aspetto della giornata referendaria
destinato a esser ricordato riguardall’incredibile uso di “twitter” che
ha segnato il pomeriggio, via via che il quorum del 50 per cento si
allontanava. Alcuni esponenti renziani (uno in particolare: Ernesto
Carbone) hanno usato la rete per irridere i sostenitori della
partecipazione, ossia gli avversari della scelta astensionista
propagandata da Renzi. Deridevano soprattutto i militanti della
minoranza Pd, sostenitori del “sì” e comunque partigiani del quorum. Il
referendum è quindi servito per mettere in luce la modestia di una certa
classe dirigente, incapace di pensare ad altro che a regolare i conti
con gli avversari interni di partito. Ed è, purtroppo, una modestia
intellettuale e politica che si mescola a una spontanea tendenza
all’arroganza. Ne deriva un intreccio vagamente inquietante, non si sa
quanto di buon auspicio per il futuro ma abbastanza vicino “partito del
premier”.
Sarebbe quindi un grave errore ritenere che il
fallimento del quesito anti-trivelle sia un trionfo di Renzi e dei suoi
collaboratori. È più semplicemente una sconfitta dei nemici del premier
che hanno scelto l’occasione sbagliata per tentare un’offensiva peraltro
poco convinta. C’è da augurarsi che a Palazzo Chigi nessuno pensi di
annettersi le astensioni, nel senso di adombrare che il 68 per cento di
non-votanti equivale ad altrettanti consensi per la politica del
presidente del Consiglio. In democrazia, giocare con i numeri può essere
pericoloso, a maggior ragione se sono i numeri di chi resta a casa
anziché andare a votare. Altri passaggi critici attendono Renzi, dal
voto amministrativo al referendum di ottobre già ricordato. Appuntamenti
per i quali non solo il premier, ma l’intero Partito democratico,
meglio se unito, dovranno augurarsi che la gente esca di casa e vada
alle urne. A differenza di ieri. «La demagogia non serve» ha chiosato in
tarda serata il presidente del Consiglio. Ha ragione, ma egli per primo
dovrà ricordarsene nei prossimi mesi.