Repubblica 17.4.16
La politica renziana quando sbaglia e quando (ci) azzecca
di Eugenio Scalfari
L’Immigration compact merita consenso ma dovrebbe prevedere anche una polizia e un ministro dell’Interno europeo
IN
QUESTI giorni il tema numero uno del nostro Paese è il referendum sulle
trivelle e quello numero uno in Europa è la sua ri-nazionalizzazione.
Cominciamo
dunque dal referendum in generale e in particolare delle trivelle:
votare o astenersi? Qualcuno fa presente che la Costituzione vieta di
fare propaganda per l’astensione (non vieta l’astensione) e non vieta di
dichiarare alle singole persone di essersi astenuto così come non vieta
di rivelare il proprio voto alle elezioni amministrative e politiche.
Quel precetto costituzionale (cui non è seguita alcuna legge
applicativa) è dunque praticamente inesistente.
È vero invece che
l’affluenza ai referendum abrogativi, che prevedono un quorum del 50 più
uno per cento dei cittadini con diritto di voto, è crollata a partire
dalla fine del secolo scorso. E ancor più in questi ultimi anni. Questa
minore affluenza del resto si verifica anche nelle elezioni dove ormai
l’affluenza in tutti i Paesi democratici dell’Occidente, oscilla intorno
al 60 per cento degli aventi diritto; solo in casi rari arriva fino al
70 ma non oltre.
Aggiungo a questa generale tendenza che ci sono
referendum abrogativi su fatti specifici che riguardano soltanto
abitanti di alcune zone del Paese mentre non interessano affatto a chi
vive su territori diversi. Quello delle trivelle per esempio non
riguarda chi vive in terre lontane dal mare e quindi del tutto
disinteressate all’esito referendario. Non riguarda per esempio Piemonte
e Lombardia.
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ENEPPURE gli abitanti
dell’intera costa tirrenica visto che i giacimenti petroliferi sono
stati individuati soltanto nella costa adriatica e ionica. In queste
condizioni sarebbe molto opportuno non estendere all’intero Paese questo
tipo di referendum che ne riguardano soltanto una parte. Ci vorrebbe
naturalmente una modifica o meglio una precisazione costituzionale che
potrebbe perfino essere anticipata da un’opinione della nostra Consulta.
Se invece i referendum del tipo di quello delle trivelle devono valere
per tutti, è evidente che chi partecipa a quel voto lo fa per ragioni di
politica generale che esulano del tutto dalla domanda referendaria. Si
vuole incoraggiare oppure indebolire il leader di turno, Renzi in questo
caso. E quindi si dà al referendum un significato ed una funzione del
tutto diversa da quella che teoricamente gli è stata assegnata. È
corretto tutto questo o è del tutto scorretto?
***
A causa
di quanto precede è evidente che esistono delle connessioni, senz’altro
improprie, tra il referendum sulle trivelle e quello del prossimo
ottobre sulla Costituzione. Segnalo a questo proposito, come ho già
fatto più volte nelle scorse settimane, che il referendum costituzionale
non prevede alcun quorum. Un’ipotesi provocatoria ma teoricamente
legittima è che ad un referendum senza quorum potrebbero partecipare
soltanto una ventina di persone e in questo caso accadrebbe che undici
di loro rappresentano la maggioranza e impongono il risultato
referendario a tutti gli altri. Di questo l’amico Crozza ha fatto una
delle sue divertenti barzellette, ma barzelletta è fino a un certo
punto. Potrebbero andare a votare venti milioni di persone e undici
milioni imporrebbero la loro linea ai quarantasette e passa milioni di
aventi diritto al voto.
Perché Renzi ha voluto questo referendum?
Evidentemente perché, non essendo ancora legittimato nella sua funzione
di leader dal corpo elettorale, il referendum del prossimo ottobre
dovrebbe avere proprio questo compito ma è difficile pensare che
effettivamente ce l’abbia visto che non è previsto alcun quorum.
Naturalmente si può rispondere che è un referendum bandito dopo che le
Camere hanno già votato la legge in questione. Ma il referendum
confermativo dovrebbe avere un quorum, altrimenti che cosa legalizza?
Assolutamente niente, sia che approvi la legge in questione e sia anche
se la disapprovi.
Bisognerebbe dunque stabilire con la maggiore
rapidità possibile che il referendum confermativo deve avere un quorum.
Temo che non ve ne sia il tempo e mi chiedo se avrebbe quantomeno un
effetto di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, una
dichiarazione in proposito da parte della Corte Costituzionale o del suo
presidente anche come opinione personale ma importante. Se vogliamo
entrare nel contesto della legge in questione per il poco che conta
dichiaro che io voterò “no” per vari motivi. Anzitutto il Senato viene
privato di tutti i suoi poteri legislativi, salvo quelli che riguardano
le leggi di natura costituzionale, i trattati o le direttive delle
autorità europee e le leggi di pertinenze delle Regioni. Quanto al
resto, il Senato di fatto è inesistente.
Questo risultato della
legge in questione è comprensibile: in molti Stati europei una seconda
Camera non c’è o non ha alcun potere se non consultivo o specifico su un
numero limitato di materie. Quindi il sistema monocamerale è pienamente
accettabile sempre che abbia un effettivo potere legislativo il che ci
rinvia alla nuova legge elettorale. Così come è stata concepita e
approvata quella legge non soddisfa affatto i requisiti oggettivi; il
risultato politico sancisce dunque di fatto una schiacciante presenza
del potere Esecutivo rispetto a quello Legislativo, sicché il capo del
governo comanda da solo.
Ho più volte criticato questa situazione,
ma poi mi sono arreso all’evidenza di una necessità che esiste da tempo
nei principali Paesi europei: il Cancelliere tedesco, il Premier
inglese, il Presidente della Repubblica francese comandano da soli e non
da oggi. Del resto anche in Italia c’è stata molte volte questa
situazione e non parlo affatto delle dittature che pure abbiamo
conosciuto ma di un potere forte che abbia tuttavia contropoteri
istituzionali e al suo fianco un’oligarchia. Attenzione: non un cerchio
magico di collaboratori subalterni, ma una vera e propria oligarchia di
personalità qualificate per preparazione politica e culturale che
condividono insieme al leader la linea storico-politica lungo la quale
il partito deve muoversi ma ne discutano le modalità di applicazione che
sono di grande importanza e possono essere interpretate a suo modo da
ciascuno di quelli che della classe dirigente del partito fanno parte.
Questo
avvenne da De Gasperi in poi nella Democrazia cristiana e anche nel
Partito comunista e in quello socialista. Cessò con l’arrivo in politica
di Silvio Berlusconi e con il populismo che ne derivò fin da allora. Il
vero compito di oggi dovrebbe essere quello di costruirla questa
oligarchia, ma non mi pare di veder segnali che possano soddisfare a
questo bisogno.
In Europa è in corso la ri-nazionalizzazione.
Sempre più evidente. Il segnale è il ritorno dei confini europei aboliti
dal patto di Schengen. L’Austria ha compiuto l’ultima violazione di
quel patto tanto più incomprensibile per un Paese lontano dal mare e
assai poco ambito come destinazione dalla massiccia immigrazione in
corsa verso l’Europa.
L’Austria è guidata da un partito
progressista ed ha tra pochi giorni l’elezione del Presidente, un
sondaggio molto significativo per constatare come si sta muovendo
l’opinione pubblica di quel Paese. Per competere con un populismo
xenofobo che si va affermando con molta forza, il governo progressista
austriaco ha deciso di adottare la medesima politica del suo concorrente
avversario, sicché accade che una politica di xenofobia reazionaria
venga gestita adesso da un governo progressista. Del resto analoghe
situazioni si sono già viste in Danimarca e in molti paesi dell’Est a
cominciare dalla Polonia, dall’Ungheria e a quasi tutti i Paesi
balcanici.
Anche l’Italia ha cavalcato per molti mesi il tema
della nazionalizzazione che, oltre ad essere motivato dagli interessi
nazionali, mantiene il potere sovrano dei ventotto Paesi membri
dell’Unione ed è questo in realtà il vero motivo della
ri-nazionalizzazione europea.
Da un paio di mesi tuttavia Matteo
Renzi ha cambiato posizione, si è spostato su una linea europeista non a
chiacchiere ma con concrete posizioni su temi molto qualificanti: primo
tra tutti l’appoggio da lui dato alla creazione d’un ministro del
Tesoro unico dell’Eurozona, secondo la richiesta più volte formulata da
Mario Draghi e da Renzi recepita con un documento comunicato
ufficialmente a tutte le Autorità europee e discusso anche col Partito
socialista europeo del quale il Pd è la componente più forte.
In
questi ultimi giorni c’è stato un altro passo importante del governo
italiano verso l’Europa. È stato chiamato “Immigration compact” e chiede
che l’Europa assuma una vera e propria sovranità sulle questioni delle
immigrazioni, quale che ne sia la provenienza e la destinazione. Un
accordo che coinvolga tutti i Paesi dell’Unione europea sugli obiettivi e
sulle risorse organizzative e finanziarie, non solo come è avvenuto
(più in teoria che in pratica) con la Turchia per quanto riguarda gli
immigrati provenienti dalla Siria, ma anche per quelli che arrivano
dalle altre aree di crisi. In particolare dalla Libia dove ormai si
concentra una crescente moltitudine di migranti provenienti dai Paesi
sub-sahariani, in una fuga che comincia dall’Africa occidentale e si
svolge nel deserto libico-algerino fino al Sudan, per risalire da questo
viaggio già schiavizzata, in Egitto e soprattutto in Libia, per poi
affrontare la traversata di mare e approdare sulle coste italiane.
L’“Immigration
compact” prevede interventi ed anche forze specializzate per operare
sui Paesi di origine e su quelli di transito, con aiuti per creare posti
di lavoro e sostegno socioeconomico, con campi di accoglienza sulla
costiera mediterranea per tutti quei migranti che non si è riusciti a
fermare prima, evitando al massimo i “viaggi del mare”.
Una
politica del genere merita consenso, ma per essere applicata dovrebbe
anche prevedere la creazione di una polizia federale europea e di un
ministro dell’Interno europeo che gestisca appunto la politica interna
dell’Ue mettendo insieme i Servizi segreti, le informazioni, la lotta
contro il terrorismo dell’Is. Si tratta di un tema non urgente ma
urgentissimo. Renzi non ha ancora risposto a questa proposta che gli
abbiamo fatto in queste pagine ma l’“Immigration compact” mi fa pensare
che la risposta sarà positiva; varrebbe la pena che fosse data.
È
vero che non sono obiettivi di rapida soluzione ma servono comunque a
dare al nostro Paese una posizione della massima importanza e ne
legittimano anche decisioni che in questo quadro non hanno affatto un
aspetto di nazionalizzazione ma adottano con legittima autonomia alcune
soluzioni che anticipano l’unità europea per la quale dobbiamo sempre
più schierarci.
C’è un terzo tema, forse il più importante di tutti ed è quello delle periferie nelle città del mondo intero.
Le
città, le capitali politiche e storiche, si sono già estese e sempre
più si estenderanno fin quasi a contenere gran parte della popolazione
di quel paese. È così a New York, a Los Angeles, a Shanghai, a Pechino, a
Nuova Delhi, a San Paolo del Brasile, a Londra, a Parigi e anche
sull’asse Milano- Torino.
Ma l’urbanizzazione reca con sé la
nascita delle periferie e il rapporto che hanno fra di loro e con il
centro di quella città. Tra loro geograficamente comunicano poco, i loro
insediamenti le pongono lontane l’una dall’altra e spesso molto diverse
sono anche le provenienze di chi le abita e quindi i luoghi d’origine,
le lingue e i dialetti che parlano.
Con il centro i rapporti
possono essere per ragioni di lavoro, ancorché sia quasi sempre lavoro
subalterno salvo poche eccezioni; ma di solito quei rapporti non
esistono. Se guardate alle banlieue parigine e a quelle londinesi, vi
accorgete che quegli insediamenti somigliano terribilmente ai ghetti,
per responsabilità sia delle classi dirigenti che abitano il centro e
sia degli stessi abitanti delle periferie che dei loro ghetti sono i
padroni.
Questa situazione produce estraneità ma spesso anche
rabbia sociale all’interno delle periferie e soprattutto nei confronti
del centro. Quando questo avviene le varie periferie si uniscono e
l’assalto al centro diventa generale.
Esiste però un problema di
periferie che riguarda la gerarchia socio-politica di interi popoli. È
sempre avvenuto nella storia del mondo da quando la nostra specie è
nata. È sempre stata una specie migrante che naturalmente e proprio
attraverso queste migrazioni ha cambiato modo d’essere, nascita di
linguaggi, perfino connotati somatici e psichici che si sono via via
evidenziati, ma la rapidità e l’intreccio attuale non è stato mai
raggiunto prima ed è causato dalla globalizzazione ed anche dalla
tecnologia. La mobilità coinvolge ormai tutto: merci, capitali
finanziari, bisogni da soddisfare, diseguaglianze da colmare, mobilità e
trasmigrazione continua dei popoli in tutte le direzioni.
Si
direbbe, osservandone i movimenti e la predicazione che compie ogni
giorno, che papa Francesco sia tra i più attenti testimoni di quanto
avviene nel mondo e delle cause che hanno accentuato la mobilità dei
popoli, le periferie del mondo, i fondamentalismi e la rabbia sociale
che può essere diventata il terreno di coltura di potenziali terroristi,
cellule ancora addormentate ma potenzialmente pronte ad attivarsi.
Uno
degli antidoti è la religione unica che ha l’obiettivo di affratellare
le diverse confessioni intorno all’unico Dio. L’esempio più recente è di
ieri: il viaggio di Francesco a Lesbo e l’affratellamento non solo con
la massa dei rifugiati in quell’isola ma l’incontro con il Primate
ortodosso che insieme al Papa ha comunicato i rifugiati. La spinta verso
l’affra-tellamento religioso è di grande importanza e se pensiamo alla
carica esplosiva del fondamentalismo religioso ci rendiamo conto
dell’importanza politica del suo contrario.
Fratellanza e libertà, è questo il vero obiettivo che dobbiamo far nostro.